La pandemia ha creato una situazione socioeconomica del tutto inedita, innescando involontariamente una frammentazione dei territori. Questo anche al Sud.
La crisi ha procurato un individualistico “fai da te”, che inevitabilmente ha ridisegnato le dinamiche economiche e rimodulato le mappe comportamentali, in tutti i campi. Dall’imprenditoria, all’industria, dall’artigianato al terziario.
Nulla poteva essere come prima. La sorpresa per una situazione incongetturabile, ha inizialmente preso la strada di un blocco protempore, per poi divenire uno sblocco a singulti, con l’impostazione di soluzioni, appunto, “personali”. Con la rottura di sistemi di scambi consolidati e l’inerpicamento per strade nuove, mai battute. Sospinti a volte dalla sensazione di non aver più nulla da perdere e quindi con l’audacia dei sopravvissuti.
Dopo più di un anno, un minimo di riorganizzazione inizia a percepirsi sui territori del Sud. La ricostruzione è lenta, ma si avverte qualche spinta.
Il Sud dell’Italia è abituato da secoli ad adattamenti alle situazioni contingenti. Non ha mai goduto di una stutturalità del sistema. Le varie dominazioni costringevano a reinventarsi, a cambiare. A volte radicalmente.
Vi è dunque un fattore genetico nella reazione, unito a quella rassegnazione che induceva a prendere tutte le inclemenze con filosofia.
È come se il Sud avesse un bagaglio diverso dal Nord. Bagaglio di esperienze diverse.
La capacità di vivere con poco, di saper ridurre l’orizzonte dei bisogni e dei desideri, è fattore comune. Vivere con l’indispensabile è stato il presupposto di partenza degli emigranti. I primi tempi sarebbero stati di indubbie privazioni.
Un popolo abituato a soffrire, quello del Sud, ed a reinventarsi. Infatti quegli stessi emigranti, brillavano per la loro creatività, al riguardo di quelli delle altre nazioni.
Forse al Sud siamo stati più capaci nel reagire nelle difficoltà, che nel proliferare il benessere. Ora è il tempo delle prime.
La pandemia ha colto tutti impreparati, ma al Sud vi è stata la sensazione di cavarsela. Erano già molti gli individui, che in una crisi globale come quella del 2007, sono tornati alla terra, ai campi, quindi alla complementarietà di essi al proprio sostentamento economico.
Nei piccoli comuni della dorsale appenninica vi è gente che con 500 euro di pensione, riusciva a risparmiare la metà e metterla da parte. A loro la pandemia, espungendo il fattore sanitario, non ha tolto nulla.
L’economia di un paese di 1.000 abitanti, il più delle volte isolato dai grandi centri, ha continuato la sua marcia. Il fornaio ha continuato a fare il pane, il falegname a girare i comuni limitrofi, per i suoi lavori, così il fabbro, il meccanico, l’alimentari. Le microeconomie non sono state investite dallo tsunami della pandemia. Perché semplici, essenziali, autosufficienti. È l’altro volto di un’Italia che ha vissuto un’imponente erosione demografica ed ha imparato a vivere dovendo privarsi gradualmente di tutto.
Mi è capitato di colloquiare con due di queste realtà, in Campania ed in Puglia, dove tutto era rimasto nei binari della normalità. Al netto delle ovvie misure di profilassi sanitarie.
Il Sud è anche questo. Paesi che lentamente stanno scomparendo e che vivono di poco. E in quel “poco’, nulla può inceppare il flusso delle merci ed il fluire della vita.
Vi sono due Sud, quello della costa, delle cinture metropolitane, dove ho narrato degli “invisibili”, ed il Sud degli Appennini, con i suoi borghi sulle rocche. Paesi medievali, ex feudi baronali, che hanno costruito la propria sopravvivenza sul bastevole. E un’Italia che esiste ma che non viene mai considerata. E non si lamenta, ma vive la sua condizione con forza e dignità.
E vive la pandemia guardandola da lontano. Basta prendere delle precauzioni. Ma nulla cambierà la sua condizione. Ed è proprio in questa inesorabilità che il fiume carsico continua a scorrere lento. Come nei secoli passati.