Nel Sud, la parola sciopero, era considerata un’apologia di reato.
Nel Meridione, sino a tutti gli anni ’70, scioperare era appannaggio delle avanguardie della sinistra ed apparteneva ad un lusso delle città metropolitane.
Lo protesta non s’incuneava nei concetti della piccola borghesia, che faceva scudo con il suo conservatorismo, pari solo a quella della media borghesia, che però nello status quo aveva un riflesso finanziario.
In un paese di alta collina, un gruppo di studenti della scuola media, si era messo in testa di fare uno sciopero. Motivo? Non funzionavano i termosifoni da una settimana.
Allora uno di essi, appartenente ad una famiglia di noti professionisti, mise a disposizione il suo bel giardino, per preparare i manifesti per il corteo.
La preside delle Medie, era una zitella acida, molto brutta, autoritaria, rispettata come autorità culturale e di una cattiveria nascosta nelle parodie dei metodi educativi. Era un prodotto formatosi nell’epoca fascista e nel 1970 ne manteneva intatto l’humus culturale.
Alberto, aveva timore della suddetta, ma non al punto da non organizzare lo manifestazione. La madre poi, cresciuta in un buon contesto culturale, non concepiva nemmeno che potesse esistere in giro un simile rudere del passato, e aveva appoggiato la protesta definendola una buona trovata. Il padre di Alberto, invece, era un uomo cui la faccenda non interessava da nessuna angolazione.
Il ragazzino, dunque, godeva di piena libertà, a differenza dei suoi amichetti, quelli del suo ambiente sociale, i cui genitori, professionisti o ricchi commercianti, vedevano lo sciopero come un abominio.
Quindi, dopo qualche giorno di concertazione, Alberto si trovò pronto per la mini-manifestazione, solo con le peggiori birbe della scuola, cioè i figli delle famiglie più disagiate del paese. Era un gruppo di quaranta ragazzi.
Venne il momento di passare all’azione. Dopo aver deciso gli slogan, una decina di essi si misero in giardino per scriverli su dei teli sottratti nel garage della villa. Erano stati ricavati dalle ‘capote’ delle auto del padre di Alberto.
I teli vennero attaccati a dei bastoni ed issati a mo’ di stendardi istituzionali, dei cartelli anomali per una protesta. Ma questo passava il convento. Gli altri ragazzi non avevano mezzi. Bisognava arrangiarsi.
“Sciopero” – “Vogliamo il riscaldamento” – “Basta con il freddo“. Slogan semplici, ingenui, slogan di ragazzini di dodici e tredici anni, di un paese isolato del Sud.
E venne il giorno fatidico. Anche l’ultimo amico di Alberto, il più fidato, quello che aveva deciso di disattendere i genitori, quella mattina non si presentò. Così egli rimase solo, con un gruppo di scalmanati, euforici per quello che doveva accadere.
Partirono da un cortile nei pressi della scuola e si diressero verso la piazza principale. Davanti a tutti a portare il telo più grande, c’era Antonino, un torello dalla faccia rosso fuoco, che urlava: “Sciopero! Sciopero! Sciopero!”. Dietro seguivano gli altri, che gli facevano eco. Tra cui anche alcune ragazze.
La gente guardava un po’ sbigottita la scena. Uno sciopero in un luogo che aborriva gli scioperi e per colmo, organizzato da ragazzini.
Qualcuno nemmeno aveva capito il senso di quello sgangherato corteo. Credeva si trattasse di qualche iniziativa della scuola di carattere carnevalesco.
Fatto sta che nel plesso delle scuole medie, arrivarono alla spicciolata gli alunni ed entrarono. Ma c’era anche chi aveva scelto di stare a casa. Una terza via, ma erano in pochi.
Al terzo piano la preside era imbufalita.
“Chiamiamo i genitori! Chiamiamo i Carabinieri! Facciamo qualcosa! Ne va del mio nome e quello della scuola!”
“Ma non lo possiamo fare.” rispose il segretario.
“Ma che figura facciamo? Che non sappiamo educare alla disciplina nemmeno dei ragazzini!”
Alberto ed i suoi quaranta boys erano arrivati in piazza. Tutti li guardavano incuriositi, ma ancora più stucchevole era che il figlio del Notaio De Brandis era a capo dello sciopero.
I ragazzi capirono che il loro ruolo lo avevano svolto, che il messaggio lo avevano dato, così misero da parte i teli con le scritte e tornarono a casa. Erano felici.
Per le birbe era stato un giorno di gloria e lo dovevano ad un ragazzo che avevano sempre odiato per la sua condizione privilegiata e considerato un nemico.
“Alberto, allora, dimmi come è andata la manifestazione?”
“Mamma, è andata bene, siamo passati per via Regina di Francia, via Longobardi e siamo arrivati in piazza. Ma Rino non è venuto.”
“Bhe, vuol dire che l’hanno trattenuto, l’importante è che il paese ora sa del problema della scuola.”
Tempo un’ora in casa De Brandis arriva una telefonata.
“Signora, sono il segretario della scuola, volevo invitarvi a venire qui all’istituto, la preside vorrebbe parlarvi.”
“A me? E di cosa?”
“Signora, non lo so. Domani mattina se potete, venite.”
La sera trascorse tranquilla nella casa del notaio, che nemmeno aveva saputo dello sciopero.
L’indomani la signora era all’istituto e quando entrò nella sala di presidenza trovò suo figlio.
“Alberto…e tu che ci fai qui?”
“E’ stato sospeso signora.” gli rispose la preside.
“Sospeso? E perché?”
“Per lo sciopero di ieri…Sono stati tutti sospesi…Ora riuniremo il colleggio di disciplina e vedremo sino a quando. Ma volevo sapere se lei si rende conto da madre della gravità del fatto.”
“E lei vorrebbe farmi lezione di morale?”
“L’ho chiamata perché la vostra è una famiglia in vista, lei ha dato un pessimo esempio alla comunità”
“Il pessimo esempio l’ho ha dato lei, con un atteggiamento vessatorio nei confronti dei ragazzi. Loro hanno scioperato contro le istituzioni per sollecitare l’acquisto dal gasolio, non certo contro di lei o la scuola.”
“No. Qui ci va di mezzo il mio nome e quello di questo istituto!”
“Io credo che lei non abbia le basi giuridiche per capire il concetto di Stato quindi la sua mansione. Lei è pagata non per fare la pedagoga di democrazia, ma di dirigente di un istituto, che non funziona in alcune componenti.”
“Ma cosa dice! Mi vuole spiegare il mio ruolo?”
“Certo! Sono due anni che mio figlio frequenta questa scuola ed ho avuto la sensazione che lei – il suo ruolo – non l’abbia capito. Lei travalica le sue funzioni. Lei si è erta ad una sorta di icona culturale, che pontifica. Una vicenda patetica.”
“Lei mi sta offendendo! Come si permette? Io mi sono laureata nel 1930 con 110 e lode in lettere antiche!‘
“Io mi sono laureata in filosofia e faccio la scrittrice. E nei miei scritti racconto gente come lei, figli della cultura fascista, che continuano a proporre una cultura fascista. Lei ha permesso in questa scuola di mettere i ragazzi con i ceci sotto le ginocchia, lo ha permesso fino ad un decennio fa! Si vergogni! Si penta! Si dimetta! Ormai ha fatto il suo tempo!”
“Ora basta! Faccio chiamare i Carabinieri! Sta superando ogni limite!”
“Alla giustizia mi rivolgerò io se i ragazzi verranno sospesi. Mi rivolgerò alla magistratura. Le metterò contro non due avvocati, ma due giuristi di fama.”
La signora De Brandis uscì dalla sala.
La preside rimase sola. Non aveva mai provato un’umiliazione simile.Viveva ormai da decenni circondata da ossequi, essere maltrattata non le era mai successo. Sopratutto nel suo punto di forza: l’aspetto culturale. Non sapeva cosa fare. Doveva partecipare al consiglio di disciplina, ma quella minaccia di essere denunciata l’aveva spaventata. Il suo nome trascinato sui giornali, la sua scuola al centro di attenzioni. La sua rabbia era tanta, ma immersa in un immenso frigorifero, che raffreddava i bollori. Il notaio De Brandis aveva ottime conoscenze nel capoluogo, aveva il denaro per pagare i giuristi, aveva il rispetto per vincere qualunque braccio di ferro. Ma alla fine la sua cattiveria vinse e proseguì. Decise di andare avanti.
“Signora preside. Il presidente del consiglio di disciplina ha comunicato di essere malato e di non poter venire. Così anche altri due membri. La riunione è annullata.”
“Signora preside, il circolo Ferrigno ha disdetto la nostra mostra pittorica.”
Da quel giorno iniziò una costante azione di allontanamento, poi di boicottaggio. Forse era l’ultimo pezzo di fascismo rimasto in piedi. E che era stato anche ossequiato.