Andavano a Riccione.
Era il 1961: dal profondo Sud erano partiti per la cittadina che si stava affermando come una meta vip della balneazione. Avevano scelto di alloggiare all’Hotel Savioli. Il meglio, e vi sbarcavano a bordo di una 1100 spider lusso.
Erano giovani fortunati. I loro genitori erano ricchi commercianti napoletani. Volevano che i figli si godessero la vita. Per lavorare e per soffrire c’era tempo. Così ripetevano.
Gino era il proprietario dell’auto ed anche il più benestante, aveva sempre le tasche piene di soldi. Un po’ li riceveva, un po’ li sottraeva. Un tipetto particolare, che non amava essere contraddetto e che voleva sempre essere il migliore.
Gli altri tre amici, lo facevano fare. Grazie a quel carattere da sbruffone, Gino finiva sempre per pagare tutto lui.
A Riccione conobbero per strada tre ragazze. Una di esse si soffermò con Gino, che sciorinò il suo repertorio.
“……E come ti dicevo, mio padre ha un locale da ballo sulla costiera amalfitana. Da noi viene a cantare Fred Bongusto, Gianni Morandi, Riccardo Del Turco….mio padre li conosce, sono amici……Abbiamo una villa sul pratone a Roccaraso…..è una bella località sciistica, io scio bene, a volte mi scambiano per un maestro di sci……A Cortina io soggiorno all’Hotel delle Poste, è l’unico albergo che mi piace……..”
La giovane che l’ascoltava si chiamava Tina. Era introversa, parlava pochissimo ed era tanto carina. Aveva un viso con lineamenti delicatissimi, una pelle bianca che ne accentuava la leggiadria. Vestiva con un abito bianco, stretto ai fianchi, con una soave collana di perle che le cingeva il collo. Al polso aveva un orologio piccolissimo.
Gino, quando perdeva il fiato, le dava spazio e lei riusciva a dire qualche parola, ma mai su se stessa. Erano frasi di circostanza, che accompagnavano il racconto del prode.
Tina andò a dormire intorno a mezzanotte e nel letto pensava quanto fosse involontariamente esilarante quel giovane. Magari avesse un quarto della sua voglia di parlare. Invece la sua vita era fatta di silenzi, a volte eloquenti, a volte banali.
Si rividero per qualche giorno Tina e Gino, poi lei si preparò per la partenza. Gino si ripromise di andarla a trovare a Monza, dove lei le diede le indicazioni per raggiungerla.
Tempo un mese e la spider 1100 lusso nera si mise in viaggio verso Milano. Gino aveva portato con se’ tre vestiti di gran foggia, cuciti da un noto sarto napoletano. Poi un campionario di camice, scarpe e cravatte. Erano le sue sicurezze.
Arrivato a Monza telefonò a casa di Tina e le rispose una donna anziana: “Aspetti che le passo la signorina.”
L’appuntamento fu nella piazza del centro, ma nel frattempo il giovane napoletano prese una stanza nel migliore albergo del posto.
Si videro intorno alle 12.30.
Gino era emozionato, anche Tina lo era. Lui vestiva un completo nero gessato su camicia bleu, lei aveva un pantalone color pesca, un po’ aderente ed una maglia bianca a collo alto. Era molto bella, con i capelli sciolti che le scendevano su un fianco.
Gino cominciò a parlare: “…….Quindi sono stato costretto per superarlo ad affiancarlo sulla destra, andavo a centosessanta…..se avessi avuto la Jaguar di mio padre non avrei perso tutto quel tempo….”
Parlava di una gara in autostrada con un tizio che aveva una Lancia Flavia, poi si mise a raccontare quando gli avevano ritirato la patente, per via di una gara con un amico. Quella volta era sulla Maserati del fratello, ma forse aveva tirato fuori il fatto solo per citare la Maserati. Insomma in un crescendo scoccarono le 14.00.
“Vogliamo andare a mangiare in un ristorante? C’è qualche bel locale da queste parti?”
“Ristorante? Ma no, andiamo a casa mia.”
“A casa tuaaa?”
“Bhe, quale è il problema? Ho già avvisato i miei. Mica siamo al Sud. Per me sei un amico che ha fatto mille chilometri per venirmi a trovare. Non ci compromettiamo mica se mangiamo a casa mia?”
“Bhe, se lo dici tu!”
Salirono sulla spider e Tina si mise ad indicar strada. E gira di qui e gira di la’, passarono davanti ad un castello. Tina disse di proseguire sul viale, poi di fermarsi.
“Ecco, suona il clacson verranno ad aprirci.”
Gino rimase ammutolito. Era uno dei cancelli del castello.
Suonò ed arrivarono due uomini. Varcata la soglia si dischiuse una strada circondata da siepi simmetriche. La percorse ed alla fine trovò una rimessa per auto. C’era una Rolls ed una Lancia Aurelia.
Gino scese imbarazzato. Lei non parlava come suo stile, ma gli fece strada.
Il maniero era imponente. All’interno le stanze avevano le volte affrescate, fontane in marmo emettevano zampillii piacevoli, qualche tappeto da calpestare, grandi lampadari che mettevano soggezione per i giochi dei cristalli, specchi mastodontici si alternavano a dipinti di gente del passato.
“Benvenuto. Si segga. Mia figlia mi ha parlato del suo ‘amico napoletano’. Mi ha detto che è tanto divertente.”
“Lei è il padre di Tina?”
“Si e questa è mia moglie…..Faccio servire, è già tutto pronto.”
Il tavolo era lungo ed un cameriere, in livrea, si adoperava a servire piatti ai commensali, sistemati a notevole distanza uno dell’altro.
“Allora, mi ha detto Tina che lei è molto loquace. Mi racconti qualcosa ci intrattenga un po’.”
Gino pensò che il massimo delle sue sbruffonate, nella migliore delle ipotesi, potevano sembrare delle inezie inutili. Così cascò Cortina, la sua villa in montagna, la Maserati, la Jaguar, il locale sulla costa, la sua casa a Posillipo, la sua barca ancorata a Capri. Tutto finì in un burrone, quello delle nullità.
Mangiò poco, parlò poco, disse di non sentirsi molto bene per via del lungo viaggio.
Ed a proposito di viaggi il padre di Tina gli disse che all’indomani sarebbe partito per l’Africa, per una battuta di caccia.
La sera Gino partì. Disse che aveva telefonato a Napoli e che doveva tornare urgentemente per un problema occorso al padre. Davanti a quell’opulenza non aveva più identità. Lui non aveva costruito un uomo, ma uno stereotipo tanto in voga nel 1961 al Sud.
Da quel giorno il suo carattere iniziò a cambiare e suo padre iniziò a prendere le sembianze di un perdente.
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