Difficile assegnare la palma del bello e del brutto per un film che si chiama “La grande bellezza“. Io che un tempo ero felliniano oggi tra le poche certezze ho quelle di essere sorrentiniano e quindi sto con quelli che al film ascrivono il facebokkiano “mi piace“. Me lo sono goduto a Roma al Giulio Cesare in Prati e con comparsata a sorpresa (ma non per me che ci sono andato di proposito) di Verdone e Servillo. Carlo ha ripetuto che il provinciale riesce meglio a capire Roma. Toni è arrivato dal teatro Argentina proponendo parole sensate e umili degne del Volonte’ del XXi secolo quale egli e’.
Parte la carrellata e sono sfondi romani come li aveva descritti il vate D’Annunzio ne “Il Piacere” ma la Decadenza è cambiata.
I principi Colonna si spacciano per Odescalchi a 250 euro, the “King” Barillari interpreta se stesso in una via Veneto spettrale con sceicchi che mangiano spaghetti e cinesi che vanno a spasso. Venditti fa Venditti, la Ferìlli fa la ferillona coatta, semplice, bona da grandangolo che entra nel caravanserraglio della modernita’ cafonal neoromana. Sorrentino rende cinema quello che per anni abbiamo visto e raccontato da Dagospia. Gambardella-Servillo è l’epigono naturale del Marcello che fu.
Chi si è cimentato dice no, perché sarebbe ardito e blasfemo confessare di aver voluto riscrivere il capolavoro per antonomasia del cinema italiano, sommo per valore ma anche per scandalo e per forza di toponimotitolo nobiliare che a Roma urbe aggiunse la Dolce vita. Ma pur se metti una giraffa al posto di una diva svedese e il candelabro ha le le lampadine lo stesso dubbio intellettuale in una sarabanda capitolina e vaticana permane.
Dal colpo di cannone al Gianicolo al tuffo nel Tevere fino alla decostruzione della terrazza romana che irride l’impegno narrato da Scola, e ormai derubricato a moralismo sciatto ci offre la fotografia del generone romano perfetta. La monumentalita’ capitolina eterna è attorniata da clero scadente, medici esteti finti guru e con la Dda pronta ad irrompere su terrazze frequentate da benvestiti che mandano avanti l’Italia. Verdone esce dalla macchietta, Serena Grandi mostra il peggio di se stessa, le donne vagano con i pensieri, la musica caciarona s’incrocia con quella sacra e tecno per un baccanale multiforme e strabiliante per sensi contemporanei e menti perverse. Da Celine in epigrafe al rutilante mondo mondano di Gambardella trovi chiavi che aprono tesori, rondini mosaici in cielo, aerei che sfrecciano, fenicotteri sui balconi.
Un cast mostruosamente perfetto esalta attori e attrici permettendosi di poter mutuare una direttrice di giornale nana presa dai modelli americana, piece alternative in periferia con colpo di testa e intervista della crudeltà, puttane notturne spettacolarizzano l’eros, lesbo e coca sono quelle del tempo odierno, tutti sembrano voler avere due cazzi e quattro seni, figli pazzi, preti che bevono Cristall (complimenti al product placement), cardinali che recitano ricette, poeti che restano muti, sante gestite da manager, badanti di grande umanita’, umanita’ varia sparpagliata in set bellissimi, decor, vestiti., installazioni che completano al meglio lo spettacolo.
Un grande Gatsby de noantri. Forse più autentico e più cupo ma dotato di autoironia italiana per combattere il depressismo imperante, un continuo “chiagni e fotti” illuminato divinamente da Bigazzi e raccontatato da morbide carrellate in dolby che rifanno bene il cinema italiano come racconto internazionale.
Campi e contracampi attorno ad un unico libro di successo e il fantasma di Moravia, bambina artista che fa milioni, e poi notti bianche senza fine e senza sosta di un flaneur del disincanto che primeggia per cinismo.
Elogio del rimpianto intinto in una sana cattiveria, il film si perde forse nel finale cercando una morale un tanto sopra le righe. Ma il resto è goduria. Si persino applaude sui titoli di coda. Fuori tutti ne parlano con animo e puntiglio come non sentivo da tempo. Una luna piena illumina Roma capoccia che assiepa locali e caroselli di auto. Paolo Sorremtino è un grande opportunista del nostro tempo malato. Bellezza e morte incartano il resto.
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