Lo chiama ‘il gene di Ulisse’: è la molla che ha spinto l’astronauta Luca Parmitano ad andare nello spazio, lo ha salvato da una passeggiata spaziale da brivido e ha velato di malinconia il sorriso del suo ultimo saluto prima che si chiudesse il portello della Soyuz che, dopo sei mesi nello spazio, lo ha riportato a Terra.
”Quando vai nello spazio sai che stai andando in un ambiente estremo e rischioso, di cui non sei assolutamente padrone”, ha detto l’astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Da nemmeno un mese è rientrato dalla missione Volare, la prima di lunga durata dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), nella quale ha trascorso sei mesi sulla stazione orbitale ed è stato il primo italiano ad affrontare una passeggiata spaziale.
La nostalgia è tanta, nonostante la felicità di ritrovare a Terra l’affetto della sua famiglia, della moglie Kathryn e delle sue bambine, Sara e Maia. ”Il bello di esplorare un ambiente completamente sconosciuto è che molte domande ti vengono dopo”, ha osservato Parmitano ripensando alla sua prima passeggiata spaziale. ”Descriverei lo spazio come un nero: non è semplicemente buio, c’è una totale assenza di luce”. E’ questo che provava quando era agganciato con i piedi sul braccio robotico della Stazione Spaziale: ”improvvisamente mi sono reso conto di essere l’uomo più lontano dalla superficie terrestre e che il braccio robotico era l’unico collegamento con tutto ciò che conosciamo, con sei miliardi di persone e 10.000 anni di storia”. Poi l’emozione di vedere la Terra dallo spazio: ”è di uno splendore caldo e radiante. Se ci pensi troppo a lungo, potrebbe sopraffarti”. Lassù ”da un lato pensavo al lavoro e dall’altro sapevo che ero sospeso sulla prua di un’astronave che viaggiava a 28.000 chilometri l’ora”, mentre sole e ombra si alternavano in un tramonto. Quello che ha provato nelle sue passeggiate spaziali, Parmitano non lo dimenticherà mai: ”non potevo distrarmi, ma ho voluto registrare tutto, con ogni cellula di me: freddo e caldo, luce e buio, felicità esuberante e tensione emotiva”.
E’ bello, nonostante tutto, anche il ricordo della seconda passeggiata spaziale, nella quale il casco ha cominciato a riempirsi d’acqua per un guasto alla tuta. ”Non c’era altra opzione: dovevo mantenere la calma”. Allora più che mai ha pesato la sua preparazione di pilota sperimentatore dell’ Aeronautica Militare: ”è stato come quando ho avuto l’incidente aereo nel 2005: allora avrei potuto lanciarmi e sopravvivere, ma non avrei saputo dove sarebbe andato a finire l’aereo, così ho deciso di restare ai comandi. Non c’è merito in questo: è il senso di responsabilità di una macchina affidata a te”.
Così il gene di Ulisse si è fatto vivo ancora una volta: ‘‘in questi casi reagire significa saper rispondere a una situazione che non conosci” e indubbiamente difficile: ”quando il sole è tramontato non riuscivo più a comunicare ne’ a vedere nulla, nemmeno le maniglie alle quali afferrarmi, non sapevo quanta acqua sarebbe entrata nel casco ed ero disorientato. L’acqua, che intanto aveva raggiunto il naso, restava immobile quando cercavo di muovere la testa”. Ma intanto ”cercavo nella mente di stabilire una sequenza di cose da fare, un piano d’azione’‘: aspettare che arrivasse il collega Chris Cassidy, decidere di aprire la valvola del casco e poi, casomai, quella della tuta. Ma tutto è diventato subito un ricordo. ”Sarei uscito il giorno dopo per un’altra attività extraveicolare”. Chissà che cosa ne pensa Sara, che a 7 anni è perfettamente consapevole che il suo papà fa l’astronauta. Appena lo ha rivisto ha voluto giocare e ci ha messo qualche giorno per domandargli: ”papà, potresti tornare ancora nello spazio?”
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