Leo Gullotta è sicuramente uno dei più grandi attori che esistano in Italia. Fin da piccolo si è avvicinato al mondo dello spettacolo, facendo, prima, la comparsa al teatro Bellini di Catania, per poi recitare al cinema e in teatro, sia in commedie che in opere drammatiche, oltre che partecipare a fiction, varietà e svolgere l’attività di doppiatore. La sua è una vera e propria passione per il mestiere che ha scelto di svolgere. Gullotta ha una straordinaria vivacità e, allo stesso tempo, grande professionalità, qualità assai rare per artisti del suo calibro. Ha due grandi occhi scuri che sembrano sondare qualsiasi cosa, “approfondire il dritto e il rovescio di una stessa medaglia”. Oltre a quella dell’attore, emerge l’autenticità dell’uomo che ha fatto sì che i personaggi da lui interpretati diventassero sempre più umani. Con lui, abbiamo parlato degli esordi, dell’infanzia al Sud e di come sia legato alla sua Sicilia, oltre che parlare di cinema, la vera fabbrica dei sogni.
Chi è Leo Gullotta oggi?
Credo sia una persona vera, sincera e molto semplice, che ama definirsi un buon artigiano. Ha sempre cercato di svolgere il suo lavoro nel modo più onesto possibile, cercando di avere sempre un grande rispetto per il pubblico con il quale, in particolare a teatro, c’è sempre stato un continuo “ping-pongare” di emozioni; d’altro canto la vita di attore è esattamente questo, un continuo scambio di emozioni. E’ una persona che non ha mai amato e che continua a non amare le “amichetterie” e le raccomandazioni. Non gli piace la sovraesposizione, pur avendo oramai 50 anni di carriera.
Partendo da qualche anno fa, che ricordi hai della tua infanzia?
Non sono più un giovanotto; tra qualche mese, infatti, avrò 70 anni ma sono pronto ad arrivare a quest’età. Provengo da una piccola e grande città, qual è Catania. Erano anni, quelli degli anni Cinquanta, in cui l’Italia, appena uscita dalla guerra, era unita. Sono nato in un quartiere molto povero, ma allo stesso ricchissimo perchè ci viveva gente molto semplice; sono ultimo di sei figli con una madre casalinga ma generalessa e un padre pasticcere. Il caso ha voluto che sia stato per molti anni il testimonial di un prodotto dolciario, ovvero i Condorelli. Posso dirti che in quegli anni c’era la gioia di vivere nonostante i pochi mezzi a disposizione. Ho avuto la fortuna di poter andare sempre a scuola. Ero un ragazzino curioso, molto curioso e ancora oggi lo sono ma con qualche anno in più; è un’ottima qualità, secondo me e, quando mi trovo nelle università e nei licei dico sempre agli studenti di essere curiosi, sempre, cercando di porre domande il più possibile. Ero un ragazzino tranquillo ma attratto dal mondo che lo circondava. Ricordo un quartiere di gente onesta e lavoratrice, sorridente e gioiosa. Avevo amici inseparabili, con i quali insieme ci recavamo nella tabaccheria della piazza e andavamo a giocare, facendo anche un piccolo teatrino, senza sapere che quella sarebbe stata poi la mia strada. Non dimenticherò mai quando, a 13 anni, sono stato attirato da un piccolo manifesto nel corridoio della scuola; facevano corsi per conoscere il teatro, io allora non sapevo neanche cosa fosse ma ciò nonostante ho deciso di partecipare. Ben presto, mi sono ritrovato all’interno del Teatro Stabile di Catania rimanendovi per dieci anni e posso dirti ho imparato proprio lì quello che so oggi. Impresse nella mia memoria sono le caldi estati con i suoi profumi e i suoi colori; allora abitavo con la mia famiglia in una casa di ringhiera con annesso un piccolo cortile e ricordo che mia madre, tramite una corda, faceva scendere un cestino con una delle sue prelibatezze per la vicina, la quale a sua volta lo riempiva con frutta fresca. Rammento anche quando d’inverno mia madre andava a prendere il latte appena munto e me lo portava sotto le coperte per farmi riscaldare.
Sei siciliano, di Catania esattamente. Cosa rappresenta per te questa terra?
La Sicilia e Catania sono le mie radici! La mia è sempre stata una città vivace, con un dialetto asciutto e veloce, con una nota umoristica, oltre che di un’intelligenza brillante. Penso che nascere in una terra del Sud sia davvero una fortuna, perché il sole è sinonimo di vita.
Quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud; secondo te, è possibile quindi resistere, cioè non abbandonare queste terre?
Posso dirti che in Italia siamo soliti dimenticarci che ognuno di noi ha o ha avuto un parente, un amico o un conoscente che sia o sia stato emigrante. Il Sud ha sempre aperto le porte a tutti coloro che vi giungevano; terre che, per chi vi arrivava, erano sinonimo di speranza. Dovremmo ogni tanto ricordarcelo e ricordarlo anche alla nostra politica, ora più che mai, imbrogliona e affaristica. Oggi si dovrebbe sempre di più combattere per non lasciare il Sud e, in generale, il nostro Paese, anche se per molti è più semplice fuggire. Siamo la nazione con un alto tasso di disoccupazione e questo è l’ulteriore conferma che i nostri dirigenti stanno ancora sbagliando. Mi capita spesso di parlare con i giovani e dico sempre loro: “Non dovete mai abbandonare il sogno, per nessun motivo, perchè la vita è la vostra e non degli altri, credeteci sempre!”. Sono stato un emigrante anch’io lasciando tutto per inseguire il mio sogno; sono partito con una valigia piena di speranza, una speranza che continua ad accompagnarmi ancora per avere un mondo migliore. Sembra quasi che oggi la nostra Italia stia peggiorando sia dal punto di vista politico che civile. Oggi altro non c’è che una svendita di pezzi di storia e di industrie, oltre che lo sviluppo di un vero e proprio interesse personale che ha inevitabilmente permesso l’ingresso delle mafie e dei giochi di potere. Abbiamo avuto personaggi illustri fare affermazioni imbarazzanti come “la criminalità organizzata non esiste” e come “con la cultura non si mangia”. I giovani devono fare i conti con queste realtà purtroppo; alcuni resistono fino alla fine, mentre altri ahimè preferiscono andarsene, ma con un sorriso amaro.
Una vita in scena la tua. Quando hai compreso che la strada che avevi intrapreso era davvero quella giusta?
Non c’è stato un momento o un episodio preciso. Ho sempre seguito il mio istinto per quella che di fatto è sempre stata la mia passione e sono stato molto fortunato nel fare e nel continuare a fare il lavoro che ho scelto.
Nella tua carriera, hai recitato al cinema e in teatro in commedie e lavori drammatici, oltre che partecipare a numerosi sceneggiati e varietà per la televisione. Ne hai uno che ricordi con maggior piacere?
Tutti in un modo o nell’altro hanno lasciato un segno indelebile in me! L’attore è colui che interpreta altre vite, lontano molto spesso dalla propria. Deve essere capace di rendere qualcosa che non è scritto in nessun copione, ovvero l’anima del personaggio. Deve riuscire a comunicare le emozioni; la battuta detta su un palcoscenico deve arrivare fino all’ultima fila.
Nel 2013 hai prodotto con Fabio Grossi il docufilm “Un sogno in Sicilia”, girato a Catania, che affronta la situazione artistico-occupazionale giovanile. Come si prospetta il futuro dei giovani in questo ambito?
Grossi e io abbiamo creato una piccola produzione per questo documentario che tratta proprio dell’ “occupazionalità” dei giovani. Sono diversi i ragazzi che hanno studiato duramente per fare gli attori, ora sono pronti per iniziare il loro percorso e ritengo giusto aiutarli; il mio rapporto con loro è sempre con la mano tesa perché sono la nostra speranza per il futuro.
Qual è il tuo rapporto con il sogno?
Posso dirti che i sogni sono come la vita e la vita è un sogno! Ognuno di noi deve continuare a sognare, sempre, per una società migliore, la speranza che non ci siano sopraffazioni, dittature, la speranza per un mondo migliore, di avere sempre un lavoro, di poter regalare un sorriso a chiunque perchè sorridere è importante. Può capitare di incontrare una persona in un autobus e notare che questa persona non stia bene, ecco a volte un sorriso, seppur per pochi istanti, può riuscire a regalare un attimo di speranza. Dico sempre ai giovani: “Inseguite sempre il sogno, non lo perdete mai, non abbiate sfiducia”. Giuseppe Fava, un mio caro amico, un giornalista ucciso dalla mafia, ci ha lasciato un’importante eredità, ovvero: a cosa serve essere vivi, se non si è disposti a lottare? Dovremmo sempre ricordarci di persone così, perchè, pur facendo con grande passione un mestiere scomodo, hanno fatto tutto questo per noi.
Con “Mi manda Picone” hai vinto il Nastro d’Argento come migliore attore non protagonista. Un ruolo molto interessante.
E’ stato davvero un bel film. Narra di un operaio che si dà fuoco, dopo aver appreso di poter essere licenziato, ma il suo cadavere scompare misteriosamente. La vedova decide di chiedere aiuto a Salvatore, il quale scopre che Picone non era affatto un operaio; basta infatti pronunciare il suo nome per ritrovarsi inspiegabilmente ricchi. Ho avuto il piacere di lavorare con Nanni Loy, una persona che, per intelligenza e professionalità, oggi mi manca molto. Ricordo quella bellissima serata nella magica Taormina e gli applausi affettuosi del pubblico.
Nel 1986, sei tra i protagonisti de “Il camorrista”, il tuo è stato un ruolo molto impegnativo.
E’ stato l’esordio cinematografico di Tornatore. E’ stata la rivelazione totale di un regista potente, la cui storia è tratta dal romanzo di Giuseppe Marrazzo, un giornalista d’assalto del TG2 di allora. E’ un film che ci racconta la cruda rappresentazione del dominio della camorra nel napoletano: omicidi, droga e tangenti.
In che modo ognuno di noi può combattere la criminalità organizzata?
Non dobbiamo cedere a nulla perchè la nostra libertà è insidacabile! Deve sfuggire all’inganno, al servilismo e al potere schifoso della criminalità. L’onestà e la lealtà devono guidarci.
Nel 1990 “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatore ha vinto l’Oscar. Cosa ha significato questo premio? E’ stato difficile vestire i panni diquesto personaggio?
E’ stato molto emozionante fare questo film con un debuttante Giuseppe Tornatore, un poeta della macchina da presa. E’ stata un’esperienza irripetibile, esattamente come gli attori che hanno fatto parte di questo fil. Impossibile riuscire a ritrovarli tutti insieme, in un’atmosfera davvero unica, come quella! Sono molto legato a questo ruolo! Posso dirti che in ogni città e in ogni quartiere purtroppo c’è un giovane uomo con un più o meno grave ritardo mentale; questo anche nella mia città. La cosa che davvero mi rincuora è il fatto che molto spesso queste persone non vengono lasciate sole, anzi si cerca sempre di più di farle entrare nel mondo della società e del lavoro. Da qui, io ho cercato di portare in scena, al meglio, il mio personaggio.
Che momento è per il cinema italiano?
Secondo me, nel cinema italiano c’è un bel ricambio generazionale. Sono arrivati nuovi attori, bravi e preparati, così come registi e sceneggiatori. Ci sono, tuttavia, troppi tagli e nessun sostegno. L’Italia è un Paese straripante di cultura e bellezza, perché mai non usufruire dei teatri greci e romani che abbiamo avuto in eredità dal nostro passato? Ci sarebbe sicuramente più turismo e ciò comporterebbe più cultura, più interesse e più fervore. Oggi si parla molto, anzi forse troppo, senza mai agire.
Cosa rappresenta per te il teatro?
Mi sono riavvicinato al teatro perchè mi sono accorto che qualcosa stava cambiando e il pubblico aveva voglia di riflettere su quanto stava accadendo, attraverso il piacere dell’occhio e dell’orecchio. Il teatro ha la meravigliosa capacità di farti pensare e a farti riprendere la vita che, inconsapevolmente, stava fuggendo via.
Anche doppiatore. Quanto è importante per un attore prestare la voce a qualcun altro?
E’ un lavoro estremamente complesso, perché è necessario conoscere tecniche precise, oltre che mai tradire le emozioni del volto di chi si sta doppiando.
A chi sente di dover dire Grazie?
A mio padre, l’ho perso molto presto. Quando ero bambino, con parole semplici, mi ha fatto capire cosa fosse il concetto di libertà, di rispetto verso gli altri, di non giudicare mai senza sapere. Devo dire Grazie anche a tutte quelle persone che ho incontrato nel mio cammino che mi hanno permesso di svolgere al meglio il mio lavoro.
Qual è la grande bellezza del tuo mestiere?
La grande bellezza è quella di saper guardare le cose per quello che sono, senza stravolgerle, annullando i protagonismi. La grande bellezza di fare cinema è la vita stessa, nonostante le delusioni, gli schiaffi e le paure che ci affliggono. La vita stessa è una vera opera d’arte, un gioco di luci e di ombre, perchè non dovremmo mai dimenticarci che c’è una crepa in ogni cosa, ma è proprio da lì che entra la luce.
Nuovi progetti?
Mi vedrete a teatro e prossimamente nella fiction “La Catturandi”, un prodotto di punta di Rai1 , con Massimo Ghini, Alessio Boni e Anita Caprioli.