Il Rapporto Svimez 2015 ci restituisce un quadro dell’economia e della società del Sud del nostro Paese indubbiamente molto critico e troppo spesso rimosso dal dibattito pubblico: la persistenza del Pil in dinamica negativa, il malessere diffuso nel mondo produttivo e in particolare nei settori industriali, il progressivo impoverimento del capitale umano, il crollo delle nascite (indicatore inequivocabile di una crisi di fiducia nel futuro).
Le motivazioni per le quali il Mezzogiorno versa ancora in queste condizioni sono molteplici: un deficit di classe dirigente sempre più grave, la mancanza di sostegno all’innovazione per il sistema delle piccole imprese, una carente trasmissione di cultura imprenditoriale e manageriale, l’illegalità ancora non sconfitta.
A questo quadro già preoccupante potremmo aggiungere, del resto, molti altri indicatori che fanno riflettere: ad esempio i dati contenuti in un recente studio di Unioncamere e Symbola (“Io sono cultura”) che ci spiegano come il sistema produttivo culturale nel Mezzogiorno riesca ad attivare solo il 30,1% della spesa turistica, mentre in molte regioni del Centro-nord questo rapporto si colloca intorno al 50%.
Se proviamo a osservare queste cifre da un’altra prospettiva però, non possiamo non vedere le enormi potenzialità inespresse.
Prendiamo il caso della scarsa capacità di accesso ai mercati esteri: anche se nell’industria manifatturiera le imprese esportatrici meridionali sono meno di 10mila unità, ve ne sarebbero altre 16mila aziende potenzialmente esportatrici che, cioè, pur avendo caratteristiche e performance similari alle aziende che accedono ai mercati esteri, non riescono ad uscire dai confini nazionali per via di problemi esogeni o infrastrutturali. Queste aziende, opportunamente aiutate e soprattutto accompagnate attraverso servizi specifici, potrebbero riattivare un percorso di crescita ed integrazione internazionale dell’economia.
Del resto, le imprese meridionali evidenziano potenzialità tutt’altro che negative anche dal punto di vista dell’innovazione (peraltro spesso “green oriented”). Quasi la metà delle imprese innova (45,1%; 51,9% in Italia) e oltre una su quattro (27,3%; 35,5% in Italia) ha apportato innovazioni di prodotto o di processo. Tuttavia, solo il 2,7% delle aziende con almeno 10 addetti ha attivato accordi di cooperazione per le attività di innovazione (media nazionale 12,5%), il che evidenzia la necessità di mettere in rete un sistema produttivo che, preso nelle sue singolarità, offre un quadro migliore dei risultati complessivi messi in luce dal Mezzogiorno.
Ecco la sfida: puntare nuovamente sul capitale umano, organizzare un collegamento stabile tra formazione e lavoro, mettere in rete le migliori energie imprenditoriali, le eccellenze della ricerca pubblica, i poli universitari più dinamici.
E, con urgenza, far convergere sistematicamente il massimo degli sforzi sui temi della digitalizzazione: secondo le indagini delle Camere di commercio anche le Pmi del Sud aperte al digitale assumono in una proporzione doppia rispetto a quelle che non lo fanno.
Una prospettiva positiva , del resto, va colta nella ancora viva voglia di fare impresa nel Sud: nel solo secondo trimestre del 2015, il tessuto imprenditoriale delle regioni meridionali ha visto l’aumento di 13.374 unità (il 35% dell’aumento complessivo nazionale, pari a +37.980 imprese).
(Su gentile concessione dell’autore. Fonte: Chefuturo.it)
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