Dalle tinture alla liquirizia utilizzate nei nuovi capi in tricot di Vivianne Westwood alle fibre di agrumi di Adriana Santocito ed Enrica Arena con Organge Fiber (Catania) fino alle borse-scrigno di Vitussi (Palermo) in fibra di ficodindia: il cibo torna a legarsi a ‘doppio filo’ con il guardaroba contemporaneo.
Un ritorno perchè in tema di piante, semi e frutta commestibile da indossare, ma soprattutto di tinture a base di ‘ingredienti’ naturali, i popoli antichi ne sapevano più di noi, già diversi millenni orsono. Fin da allora la tintura di fibre naturali e tessuti avveniva sfruttando le proprietà coloranti di alcune erbe. Le prime tracce di utilizzo della tintura, risalgono addirittura al periodo neolitico. Nel villaggio neolitico presso il lago di Ledro in Trentino sono stati trovati reperti che recano tinture ottenute da robbia, guado e uva orsina. Anche se allora le possibilità di tintura erano legate alla reperibilità in loco dei materiali utilizzati che condizionavano la scelta dei colori.
Così gli Egizi tingevano il lino nella gamma dei gialli e dei rossi con l’hennè, il cartamo, lo zafferano, la curcuma, grazie anche alla possibilità di usare come mordente l’allume, di cui possedevano giacimenti. In Mesopotamia sin dal IV millennio a.C. si tingeva la lana con colori brillanti: Caldei e Babilonesi apprezzavano la ricchezza dei colori e lo sfarzo nell’abbigliamento avevano messo a punto una tecnica per mescolare i colori della lana che tingevano in fiocco durante la filatura. Gli ebrei tingevano in matassa, usando il kermes, un parassita della quercia, i mirtilli, le galle di quercia e il bitume del mar Morto per ottenere il nero. I più conosciuti tintori del Mediterraneo furono i Fenici, a cui si deve la scoperta, a metà del XV secolo a.C., della tintura ricavata dai molluschi della famiglia murex che dava il colore porpora.
In Italia, da alcuni anni, è in corso una vera e propria riscoperta della possibilità di tingere i tessuti attingendo direttamente dal mondo vegetale: camomilla per ottenere il giallo, radici di ortica per il verde, robbia per il rosso. In una formula casalinga si portano all’ebollizione lino o cotone imbevuti nelle erbe e poi si fissano immergendo i teli in un composto con un quarto di aceto bianco e tre quarti di acqua.
Le collezioni autunno 2014 di Vivienne Westwood Gold Label e Vivienne Westwood Man Label presenta la nuova maglieria Vegetable Dye, ottenuta con una tinta del tutto naturale a base di liquirizia. Il logo Vivienne Westwood con la scritta Vegetable Dye ricamata caratterizza i capi sottoposti al naturale processo con cui l’indumento è stato trattato. Ogni capo è stato tinto con radici di liquirizia, seguendo una tecnica di tintura antica, per ottenere un risultato naturale senza l’utilizzo di prodotti chimici dannosi.E’ la prima e unica tecnica al mondo di colorazione naturale che ha ottenuto l’approvazione da parte di Woolmark. La scelta di utilizzare materiali eco in tutta la gamma riflette il mantra di Vivienne: “Compra meno, scegli bene e fallo durare”.
Produrre capi di abbigliamento vitaminici, tonificanti per la pelle, utilizzando gli scarti delle arance, grazie alle nanotecnologie è l’idea di Orange Fiber, studiata da due giovani donne siciliane, di Catania, Adriana Santanocito e Enrica Arena, che grazie a un finanziamento dalla Provincia autonoma di Trento e dal Fondo europeo di sviluppo regionale attraverso il bando ‘Seed Money’, e dopo aver preso domicilio a Rovereto, in Trentino, hanno fondato Orange Fiber. Il processo introdotto dalla start-up rende possibile l’estrazione di cellulosa da scarti agrumicoli e il suo uso per il settore tessile. Grazie all’impiego delle nanotecnologie, Orange Fiber fissa ai tessuti oli essenziali di agrumi, affinché il vestito rilasci vitamine su chi lo indossa e ne favorisca il benessere.
Sempre dalla Sicilia, Vitussi, marchio fondato dal designer palermitano Vito Petrotta Reyes, crea borse-scrigno in fibra di ficodindia con interni con ricami personalizzati e strutture e manici in ottone martellato e lavorato