Matera mi accoglie nel suo abbaglio di pietre lucenti: una sovrapposizione mi prende mentre mi affaccio sul primo panorama sui Sassi che mi si apre improvviso mentre raggiungo l’Hotel che cita la pietra nel suo nome. Mi pare di vedere un paesaggio già conosciuto, provo a ricordare: Matera allora mi appare come un luogo interiore, quello antico, atavico che è dentro di noi, negli strati più profondi e nascosti, è in ognuno di noi quando guarda quella parte di sé, quella granitica che nessuno e niente può scalfire. Ha il colore cangiante Matera, cambia abito ma sempre nelle tonalità cremisi che virano verso il giallo paglierino o verso una tonalità che le contempla entrambi, un colore che è lo stesso anche all’interno delle case, fatte pietra su pietra con quelle scavate nei sassi cavernosi.
Allora, sono appena arrivata e ho la sensazione di esserci sempre stata fra sassi e pietre, luci riflesse e incastri di case, terrazzini di varie forme, comignoli decorati e fiori presenti in ogni casa anch’essi di pietra a forma di stelle forate che lasciano entrare aria e riflessi di luce, come piccole aperture che mettono il dentro e il fuori sempre in contatto.
Le stradine che la percorrono sono lastricate di pietre lisce e usurate dai passi, ti dicono chiaramente che qui il passo deve rallentare, qui devi scoprire o riscoprire la lentezza del cammino e la sua semplicità, passo dopo passo guardando il percorso pietroso e osservando ciò che ti vibra intorno. Userò solo scarpe da ginnastica, i tacchi restano nel trolly!
Sono a Matera per il Woman Fiction Festival 2017 alla sua tredicesima edizione – 27/30 settembre – un Festival sui generis, unico nelle sue proposte e nel suo tema portante. Ho incrociato il Festival incontrando con mail, whatsapp e quindi telefonate Mariateresa Cascino, una delle tre ideatrici della kermesse letteraria che si concretizza nel 2004. L’incipit – e ci deve essere un incipit alla maniera delle storie/fiction celebrate proprio nel titolo e nella pratica del Festival – viene dall’americana Elizabeth Jennings, in Italia dall’età di diciotto anni, traduttrice dall’italiano all’inglese per Harmony Mondadori e dall’incontro ( anche qui prima telefonate, mail… ) con Maria Paola Romeo, agente letterario, allora capo editor per la Harlequin Mondadori.
La Jennings conosceva bene la realtà degli autori americani che si incontravano in congressi annuali per scrittori, per cui agli inizi Elizabeth e Maria Paola pensano a una sorta di ritiro per scrittori a Matera, città del silenzio, quello che agevola e stimola l’atto creativo e narrativo. Questa idea si sviluppa e si concretizza sempre nel 2004 come Congresso con un’impronta anglofona che voleva attrarre anche editori e scrittori italiani ( che sono arrivati poi da alcuni anni – dalle più grandi case editrici a scrittori che hanno avuto l’opportunità di essere pubblicati-) intorno a un concept ben preciso: la scrittura come mestiere.
Mariateresa Cascino, materana che ben conosceva la realtà del luogo nelle sue varie sfaccettature- era da poco rientrata dagli Usa, dove aveva maturato valide esperienze nel campo della comunicazione – è il terzo tassello della triade che dà vita al Festival, ognuna con competenze diverse ma con un incastro collaborativo azzeccato. L’idea è vincente e nuova in assoluto nel panorama europeo, perché focalizza l’attenzione su scrittori e case editrici che potevano ritrovarsi in un luogo, Matera, e per alcuni giorni “con uno spirito inclusivo, senza gerarchie – come mi racconta Elisabeth Jennings nella sala stampa approntata negli ambienti della Fondazione Monacelle – qui al WFF gli scrittori incontrano la loro tribù di appartenenza in un’atmosfera intima e alla pari in un’aura vivace, creativa. Abbiamo scavato questa idea nella roccia e poi l’abbiamo costruita come si fa con le pietre”.
Ne ho conferma diretta sin dal mio arrivo al cocktail di benvenuto organizzato presso La gatta buia dove appena varco la soglia trovo un brusio, un fermento vivo e spontaneo tra persone che si re-incontrano annualmente e fra chi vi arriva per la prima volta. La doppia lingua inglese e italiano risuona nelle stanze di questa Gatta buia, scoprirò poi nel mio soggiorno materano che nomi, titoli, vie, locali sono un’antologia di termini creativi che si ispirano al luogo ma anche agli animali ( così ripenso al ristorante Pico dove pure un’intollerante come me mangia piatti gustosi preparati da Enza e alla maniera proustiana mi tornano in mente sapori della mia terra e quelli di questa terra così consonanti) e alle piante, ai palpiti della pietra che ne è il leitmotiv e mi indicano che questo luogo è votato per sua intima anima al racconto, o meglio alle parole che raccontano.
Del Festival e dei numerosi incontri e occasioni culturali in programma dico solo in sintesi – troppo si dovrebbe scrivere, allora lascio il campo a ciò che il lettore immagina e può scoprire – dalla Borsa del libro, incontro diretto tra scrittori e case editrici e agenti- tra i più noti e apprezzati in Italia e nel mondo- alle presentazioni di libri, convegni, performance, al Premio La Baccante ( chi lo vince si aggiudica pure la collana d’oro ideata da lella Campitelli) alla mostra fotografica che quest’anno lo accompagna, tutto scorre fluido, sintonico e sincronico. Elizabeth, Mariateresa, Maria Paola con la collaborazione di Giuditta Casale, Silvia Palumbo, Tiziana D’Oppido, Rebecca Riches ( e di tutti quelli che vi lavorano a vario titolo) muovono fili che non si vedono ma che ci devono pur essere se tutto va e scorre senza intoppo o contrattempi, allora di questi quattro giorni- in cui ognuno poi scrive la propria storia intessuta con persone e luoghi- tiro fuori solo qualche elemento che non vuol dimenticare tutti gli altri, solo così per fare qualche breve esempio.
Annalisa Monfreda mi appare come una fata contemporanea, direttore di Donna Moderna con amate origini pugliesi, leggera- direi ludica- e profonda, con un suo personale piglio giocoso e agile, presenta e parla di libri cogliendo quel tratto distintivo su cui focalizzare l’attenzione e poi lo scrittore Lorenzo Marone, anche per la dedica che mi scrive sul suo libro Magari domani resto ( che cita le “piccole vite”), mentre parlo di rondini- quelle della copertina e quelle che io provo a salvare con un mio prossimo progetto con la Lipu- e di Elio Germano attore ne La tenerezza- tratta da un suo romanzo- molisano/ sannita come me, anzi pure ambasciatore del Molise nel Mondo, con tanto di medaglia da appendere al collo!
Colgo poi una caratteristica, una sorta di fil rouge che deve essere una faccenda del luogo e delle persone che lo vivono, il Festival si sposta continuamente, tocca luoghi e angoli della città in una continua itinerante scoperta della stessa da parte della tribù – a detta di Elizabeth- che si riconosce anche dalla bag appesa alla spalla con logo del WFF- un volume/ caravella con dietro/ sopra- se lo si vede come caravella- quattro tipi di donne allineate e graziosamente ammiccanti . Così fa pure una giovane stilista Arianna Laterza che casualmente incontro, fa posizionare le modelle con i suoi splendidi abiti (ma sono lucenti e hanno il colore delle pietre di Matera?) prima sulle scalinate della Chiesa di San Francesco e poi proprio alla Fondazione Monacelle (le indossatrici sono sedute su un divanetto che prima aveva accolto trepidanti scrittrici con sinossi, romanzi e racconti nelle mani). Quando vado via, non saluto Matera ( porto con me sensazioni e pensieri, amicizie tracciate e anche il noto pane a gobbette e mollica- ma ha la stessa sfumatura giallina delle pietre?). So bene che è solo un arrivederci.