La coltivazione di frutta tropicale e subtropicale In Italia è una realtà ormai da alcuni anni. Lo riconoscono anche le regioni, che infatti stanno cercando di finanziare questo nuovo ambito produttivo. Ma non tutti i terreni sono adatti a queste colture, e nello specifico bisogna prestare attenzione proprio al Sud, dove il settore è in crescita, ma forse non sempre nei posti giusti.
Nonostante la sua più grande diffusione in Sud Italia risalga a tempi più recenti, non si può dire che la coltivazione di frutta tropicale sia iniziata adesso. Come racconta Andrea Passanisi di Sicilia Avocado, “fin dagli anni ’50 e ’60 le piantagioni di mango e avocado sono state testate accuratamente in Sicilia da diversi gruppi di ricercatori”. E non solo. Basti pensare che negli anni ’90 la piantagione di mango del signor Francesco Mastronardo a Rometta (Messina) interessava i più curiosi. Non è poi raro trovare questi alberi anche nei giardini delle case private, piantati forse per una questione ornamentale, ma i cui frutti appartengono alla memoria storica del territorio meridionale.
I tentativi del tempo non sono altro che le fondamenta di oggi. Quantomeno per chi ne accoglie gli insegnamenti. “In molti decidono di produrre in terreni che non sono adatti a questo tipo di piante, e sono costretti a trattarle – spiega Vincenzo Amata, proprietario di Papamango – ma questo fa perdere caratteristiche organolettiche al prodotto finale”.
Alcuni parlano di cambiamento climatico come motore del successo della frutta esotica al Sud. Certo, l’aumento delle temperature a volte è d’aiuto, ma la presenza di queste cultivar già più di 70 anni fa dimostra che non è solo il riscaldamento climatico ad aver reso il terreno adatto. Alcune zone sono sempre state ottimali, semplicemente non lo si sapeva. È il caso di Giarre (Catania), con i suoi oltre 1000 ml d’acqua l’anno (è l’area più piovosa della Sicilia grazie all’Etna, catalizzatore di pioggia), una temperatura media di 17°C, l’assenza di vento e il ruolo fondamentale dell’Etna. Il terreno vulcanico è ricco e fertile, oltre che pieno d’acqua. È proprio lì che nasce Sicilia Avocado, in una ex piantagione di limoni.
“Non avrei mai pensato di fare dell’agricoltura il mio lavoro – racconta Passanisi, proprietario dell’azienda – mi ci sono approcciato per passione, avevamo un terreno di mio nonno in cui piantavamo limoni, gestito dalle stesse famiglie da tre generazioni”. La svolta è stata segnata da un viaggio in Brasile tra i 17 e i 18 anni. “Lì ho scoperto l’avocado ed è stato amore al primo assaggio”.
Così la scelta di convertire la produzione, ma con il desiderio di tutelare la terra. I pionieri di metà ‘900 sono stati proprio i primi a scoprire il sogno di Andrea Passanisi. “Volevo fare le cose per bene, e per questo ho deciso di iniziare studiando ciò che era stato scoperto dal basso: ho piantato io stesso gli alberi insieme agli altri contadini”. Poi i viaggi in macchina per studiare i mercati e parlare con i distributori. Da allora sono passati 8 anni, e Sicilia Avocado oggi è un brand che raccoglie una filiera di 30 aziende. Vengono prodotti anche papaya, iris, mango e feijoa. “La nostra soddisfazione più grande è aver dato identità al legame tra frutto e territorio, raccontando la storia di una tradizione sconosciuta”.
E poi c’è chi della frutta tropicale si è innamorato tanto da cambiare carriera. È il caso di Vincenzo Amata, che un giorno ha assaggiato un mango e ha deciso di lasciare tutto. “Ho passato una vita in giacca e cravatta come rappresentante – spiega – ed ora invece mi sveglio presto ogni mattina per prendermi cura delle mie piante”.
Di certo non una svolta semplice: non è da tutti imparare a guidare il trattore e gestire una piantagione di manghi quando si è sempre fatto altro. Però Amata c’è riuscito, ed oggi si prende cura quotidianamente dei suoi frutti quasi fossero suoi figli. “C’è bisogno di molta umanità in questo lavoro. Quello di mango è un albero molto delicato – precisa – può subire più di 140 patologie, di cui 5 gravissime”. Per questo anche qui la scelta di affidarsi alla ricerca di esperti, agronomi che possano comprendere la vocazione del territorio e supportare l’agricoltore nella cura di ogni cultivar.
Il discorso che vale per l’avocado è lo stesso per il mango: il cambiamento climatico non è l’unica ragion d’essere di queste piante, e a volte non gli è nemmeno d’aiuto. D’altronde a Sant’Agata di Militello (Messina) negli ultimi anni ci sono state spesso bombe d’acqua che hanno messo a rischio le piantagioni.
Allo stesso tempo, la campagna è un vero e proprio spettacolo nel contesto in cui si trova. Non è infatti fuori città, ma nel suo cuore, e tra i sogni di Amata c’è anche quello di creare un giardino tropicale di 3000 metri quadrati dentro il paese. “Si tratterebbe di una sorta di museo di botanica tropicale in cui fare eventi e degustazioni”, riflette. Nel frattempo, però, le idee non mancano: “Abbiamo già creato Casa Mango, un alloggio per le vacanze ricavato da una vecchia cascina, e che vuole regalare emozioni sensoriali a chi lo visita”. Con l’obiettivo di ingrandirla, per creare fino ad 11 appartamenti.
Quella della frutta tropicale e subtropicale rappresenta una nuova pagina dell’agricoltura meridionale. Esempi di imprenditoria del genere nascono all’ordine del giorno, anche se a volte le aziende dovrebbero essere guidate meglio nel loro percorso. Non tutti i terreni sono adatti a una piantagione del genere, ma molti possono essere studiati e compresi, anche con un tocco di “umanità”. Se, poi, chi fa agricoltura decide di farlo in modo più sostenibile, ancora meglio. Basta anche solo riutilizzare la pollina proveniente da un pollaio, come fatto dalla messinese Papamango.
In più, sembra necessario riconoscere la scelta di queste piantagioni come un atto culturale, oltre che socioeconomico. Cambiare l’aspetto del territorio ha un influsso anche sul modo in cui le persone lo vivono. Così è chiaro che avere un mangheto in mezzo a una città è una cosa nuova. Allo stesso tempo, un produttore di avocado che fornisce supporto tecnico a chi decide di trattare frutta esotica fa una rivoluzione anche di tipo identitario. E crea (o, forse, continua) una tradizione. Il futuro si accompagna quindi al passato, così come a una coscienza comune sul vero influsso dell’agricoltura nella vita delle persone. E del perché debba essere finanziata anche oggi.
(Immagine in evidenza fornita da Sicilia Avocado)