Il Mezzogiorno, la parte più debole del paese, sta pagando il conto maggiore della crisi italiana, anche a causa dell’impostazione delle politiche economiche degli ultimi anni. Questa non è un’affermazione impressionistica; o, peggio, un pregiudizio politico. E’ una valutazione scientifica che è possibile fare anche grazie ai dati resi disponibili in un eccellente, recentissimo, lavoro della Banca d’Italia. Volendo usare un linguaggio colorito ma efficace, il Mezzogiorno degli ultimi anni è “cornuto e mazziato”: accusato di essere responsabile delle sue sventure, ma al tempo stesso colpito fortemente dalle scelte nazionali.
Che l’economia meridionale, a partire dal 2010, abbia risultati peggiori della media italiana è fatto noto, argomentabile con tutti i dati dell’Istat. Che questo dipenda anche dalla struttura dell’economia del Sud è altrettanto noto: in particolare il Mezzogiorno ha una capacità di esportare inferiore, e quindi riesce meno a compensare il crollo della domanda interna. Ma che il pessimo andamento economico dipenda anche – e molto – dalle nostre politiche economiche è un fatto totalmente ignorato dalla discussione pubblica (solo Svimez e Irpet hanno prodotto qualche documento); probabilmente da molti degli stessi decisori politici. E invece è un fatto incontrovertibile, in base ai seguenti dati.
Come noto, l’azione pubblica, in Italia come in tutti gli altri paesi, determina una significativa redistribuzione fra i cittadini: le tasse sono teoricamente progressive rispetto al reddito, molti servizi pubblici sono disponibili indipendentemente dal reddito. La redistribuzione tra gli individui assume in Italia un connotato territoriale: dato che mediamente i cittadini del Sud sono più poveri, il Mezzogiorno “riceve” dal bilancio pubblico più spesa rispetto al suo gettito fiscale. Questa differenza si chiama “residuo fiscale”. Negli anni prima della crisi il residuo fiscale ammontava a circa 56 miliardi. Naturalmente se la parte debole del paese cresce di più (e quindi, con maggiore reddito, paga più tasse) il residuo fiscale si riduce. Negli ultimi anni il Sud è cresciuto meno della media nazionale, quindi il residuo fiscale sarebbe dovuto aumentare: e infatti nel 2009-10 è salito a 60 miliardi. Ma dopo si è ridotto moltissimo: ci dice la Banca d’Italia che nel 2012 (ultimo anno per cui i dati sono disponibili) è sceso a 44 miliardi. Perché? Perché la spesa pubblica nel Mezzogiorno è stata tagliata più che nella media nazionale, e contemporaneamente la pressione fiscale è aumentata di più.
Quanto alla spesa pubblica corrente, i numeri sono questi: nel biennio 2011-12 è diminuita nel Mezzogiorno del 2,6% all’anno e nel CentroNord di meno: del 1,3% all’anno. Questo dipende dal fatto che i tagli non hanno colpito la spesa per prestazioni sociali, principalmente pensioni più concentrate nel CentroNord, e hanno invece colpito le altre voci di di spesa. E di più al Sud. Così nel 2009-12 la spesa sanitaria è diminuita del 6,7% al Sud (2,9% al CentroNord); la spesa per istruzione si è contratta addirittura del 14,6% nel Mezzogiorno (8,1% al Nord). Un altro dato è importante ricordare: il numero di dipendenti pubblici: fra il 2007 e il 2013 l’occupazione “nei servizi facenti capo principalmente al settore pubblico” è cresciuta al CentroNord del 3,7%, mentre è diminuita del 9,6% al Sud.
Il quadro della spesa in conto capitale va nella stessa direzione: qui i tagli alla spesa sono stati ancora più forti, e, manco a dirlo, maggiori nel Mezzogiorno. Nel triennio 2010-12 la spesa in conto capitale è scesa ogni anno dell’11,8% al Sud: quindi si è ridotta di più complessivamente di oltre un terzo; la contrazione al CentroNord è stata sensibile (10% all’anno) ma inferiore. Come per la spesa corrente, i dati non includono ancora il 2013 e il 2014, anni ancora molto difficili e caratterizzati dalle stesse tendenze; né includono alcuna previsione per il futuro. Chissà come sarà il quadro dopo che – in una congiuntura simile – nella Legge di Stabilità appena approvata alla Camera sono stati cancellati con un colpo di penna, senza alcuna motivazione, 3,5 miliardi di investimenti pubblici (fra cui le scuole e la mitica ferrovia Napoli-Bari) nel Mezzogiorno.
L’analisi si completa con i dati sul prelievo fiscale. Come già sottolineato dalla Corte dei Conti, l’aumento della pressione fiscale locale si è concentrato nel Mezzogiorno; il calo dei trasferimenti dal centro ha imposto forti aumenti di aliquote agli enti locali dei territori più deboli. Gli ultimi dati lo confermano appieno: nel 2011-12 le entrate fiscali sono rimaste stabili nel CentroNord mentre sono aumentate dell’1,7% all’anno nel Mezzogiorno. E, ancora una volta, mancano il 2013-14 e gli anni a venire; facile immaginare un ulteriore peggioramento ad esempio con le ultime decisioni: l’ulteriore, secco (altro che spending review!) taglio di 4 miliardi per le regioni non potrà che comportare aumenti nella tassazione, oltre che nei ticket sanitari e nei costi del trasporto pubblico locale. Un dato chiude e sintetizza l’analisi: il rapporto fra gettito fiscale e PIL è ormai nel Mezzogiorno ad un “livello prossimo” a quello del CentroNord: cosa che non dovrebbe affatto essere, dato che al Sud il livello di reddito e molto più basso e la tassazione sugli individui dovrebbe essere progressiva.
Cornuto e mazziato, il Mezzogiorno vive così, anche grazie a queste scelte di politica economica, nella latitanza dei rappresenti politici che dovrebbero contemperare i suoi interessi con gli interessi generali del paese, il momento economico peggiore dall’Unità d’Italia ad oggi.
Difficile immaginare, purtroppo, che le cose possano facilmente cambiare. Ma che si abbia diffusa conoscenza in Italia del fatto che il Mezzogiorno sta tirando la cinghia molto più del resto del paese, è davvero il minimo sindacale da pretendere.