“Chi siamo noi testimoni di giustizia per lo Stato, per le Istituzioni, per gli uomini e le donne delle forze dell’ordine. Vogliamo chiederlo a coloro che ci chiamano rompicoglioni? Avranno mai il coraggio di dichiarare pubblicamente ciò che pensano di noi”.
Non si rassegnano i testimoni di giustizia italiani. Cittadini onesti che hanno fatto semplicemente il proprio dovere, che non hanno abbassato la testa, che non hanno girato la testa dall’altra parte. Denunciando le illegalità, permettendo condanne esemplari, facendo condannare tanti mafiosi. Offrendo un esempio reale e concreto nella lotta al crimine organizzato. Oggi i testimoni, altra cosa dai collaboratori di giustizia o pentiti, sono dei soggetti che vivono nell’ombra, nella paura, nell’incertezza. Senza alcun tipo di aiuto, senza tutele, senza speranze. Prima coccolati, utilizzati. E, poi, vergognosamente abbandonati. Messi da parte da uno Stato con la ‘s’ minuscola, che non riesce a fare il proprio dovere.
Uno Stato poco attento, silente. Assente. Arrogante e scorretto. Solo parole pubbliche di circostanza: “faremo, diremo, affronteremo. Ci stiamo organizzando, stiamo risolvendo. Vi assumeremo nelle pubbliche amministrazioni”. Parole vuote, inutili. Per tamponare. Rese pubbliche per mera pubblicità e autodifesa. In privato tutto un altro linguaggio, che continua a ferire chi ha denunciato. “Rompicoglioni”, “pazzi”, “squilibrati”, “opportunisti”. Ecco il linguaggio istituzionale, ecco la gratitudine verso cittadini che hanno messo in discussione la loro esistenza. Perdendo il nome, la casa, il lavoro, l’azienda, il contatto con il territorio, gli amici. La speranza. Un peso, per le Istituzioni, e non una risorsa, per il futuro.
“Per fare il mio dovere, per il diritto al voto, ho percorso quasi duemila chilometri – aggiunge un testimone -. Ogni uomo deve essere libero di vivere e di essere protagonista del cambiamento culturale. Ho anticipato tutte le spese di tasca mia e ho fatto il viaggio da solo. Senza protezione, senza alcuna tutela. Mi hanno pure detto: ‘che ci vai a fare?’. Ciò che per voi è semplice, per noi testimoni di giustizia è sempre un ostacolo. A volte superabile, ma troppo spesso un ‘no’ blocca la speranza di una vita normale o l’illusione di una via di uscita da quel tunnel che ci rende invisibili”.
Ritorna sempre la solita frase: “chi te lo fa fare. Chi te l’ha fatto fare”. Loro, semplici cittadini onesti, hanno denunciato le estorsioni, il racket, le anomalie, gli omicidi, la corruzione, il sistema criminale. Il marcio di questo Paese. Ed ecco il premio, la gratitudine istituzionale. Molti testimoni, in questa Italia alla rovescia, sono letteralmente impazziti. Stanchi e delusi da promesse mancate.
“All’inizio tutto sembra andare bene – denunciano i testimoni -, promettono mari e monti. Poi ci trattano come se fossimo dei pacchi postali”. Molti hanno tentato il suicidio, molti sono stati ammazzati dalle schifose criminalità organizzate perché abbandonati al loro destino. Le drammatiche storie di Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Domenico Noviello e Ignazio Aloisi (per citarne alcuni) non sono servite a nulla. Hanno pagato con la vita il loro impegno. Denunciare è un dovere, ma essere difesi è un diritto.
Qualche giorno fa il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, in un convegno pubblico sui testimoni ha affermato, attraverso una nota, i soliti e banali concetti: “è evidente che il pieno reinserimento del testimone nel tessuto sociale costituisce un obiettivo primario, il cui raggiungimento è necessario per poter ricondurre la testimonianza contro la criminalità organizzata entro una dimensione di normalità. Il comune cittadino deve essere consapevole che compiere un simile gesto di civiltà e legalità non equivale ad andare incontro ad uno stato di emarginazione sociale ed abbandono”.
Ma questi rappresentanti delle Istituzioni si parlano tra di loro? Conoscono da vicino il dramma di queste persone? “Si rende infatti sempre più necessaria – secondo il sottosegretario Ferri – una seria riflessione sulla situazione di questi cittadini, che, animati da coraggio e senso di giustizia, svolgono un ruolo tanto centrale nell’ambito della lotta alle mafie, ma che tuttavia devono confrontarsi con disagi e avversità, spesso inaspettati, conseguenti la loro scelta”.
Da quanti anni si attende questa ‘seria riflessione’? Disagi e avversità ‘spesso inaspettati’? Non esiste la volontà politica, solo discorsi sterili. Parole buttate al vento. Basta leggere la relazione della Commissione parlamentare Antimafia sui testimoni di giustizia del 2008. Un documento fortemente critico ed inascoltato. “A volte il testimone di giustizia, proprio perché considerato un peso, viene trattato come un collaboratore di giustizia, in termini di sicurezza. Il collaboratore – spiega Angela Napoli – è trattato molto meglio dallo Stato, rispetto ad un testimone. Il collaboratore ha la protezione del magistrato che si serve del collaboratore per definire determinate situazioni processuali e il collaboratore che diventa tale pur avendo alle spalle notevoli reati, pretende poi i suoi diritti, sia in termini economici sia in termini di trattamento, che appaiono molto maggiori rispetto a quelli del testimone di giustizia. Trattato, a volte, come un delinquente”.
Ma cosa è cambiato dal 2008? “Purtroppo da allora – secondo la Napoli, oggi consulente della Commissione Antimafia – non c’è stato nessun intervento significativo che desse riscontro a qualche proposta”. Ma perché? “Le loro testimonianze fanno paura, sono coraggiose e rivolte in maniera ben individuata a persone. Provengono da soggetti che non hanno commesso alcun reato. Quello che non si è voluto capire è che i testimoni non sono mafiosi, ma vittime di mafia”.
Serve urgentemente una legge, solo per i testimoni. Nel 1991 il legislatore mette tutti, collaboratori e testimoni, nello stesso calderone. “L’errore – spiega il testimone Ignazio Cutrò – lo hanno fatto loro. Una cosa assurda. Dovevo stare insieme a quei quattro pezzi di merda di mafiosi? È un errore paragonare i testimoni ai collaboratori. L’ex mafioso, il collaboratore di giustizia, ha fatto parte dell’organizzazione mafiosa. Mafioso era e mafioso è rimasto. I testimoni di giustizia sono un’altra cosa. Siamo persone normali, cittadini onesti”. Dopo dieci anni, con la legge 45 del 2001, nulla è stato risolto.