Un brivido di sudore scende al fatidico invito: ci vediamo da me in villa. Non c’è niente che ci auguriamo meno in estate, non c’è niente che ci capiti di più. Perché la villa è il più beffardo inganno non solo della buona stagione. C’è stato un tempo in cui alzarsela era un segno di ricchezza raggiunta, come quelli che in America tagliavano il traguardo del milione di dollari. Era il passaggio del Rubicone. Il mondo si divideva in due, chi ce l’aveva e chi no. Arrivato giugno, era una litania: siamo in villa (detto col ditino alzato e la catenazza al collo).
Si è assistito a pendolarismi villa-città e città-villa che avrebbero schiantato un camionista del passaggio a Nord-Est. Ma vuoi mettere il piacere di levarsi scannati all’alba con gli uccellini e la sera appena arrivati crollare sotto le zanzare perché il giorno dopo toccava di nuovo il piacere di levarsi scannati all’alba con gli uccellini?
IL TEMPO DELLA CRISI – Chi la villa non ce l’aveva non solo non era in villa, non era e basta. Sono stati gli anni della corsa a tutte le Rosa Marina di Puglia. Sono stati gli anni in cui quello era non solo l’investimento con la I maiuscola, si compravano più ville che deodoranti ascellari. Ma era anche il segno della svolta, di una vipperia conquistata a botte di piscine, prati all’inglese e accessi diretti al mare. Senza disdegnare la collina con quell’aria pura in una posizione ovviamente unica o la serenità quasi eterna della campagna fra zucchine e pomodori e il gallo che canta alle 4 del mattino (ridalli).
Presa la villa, si prendeva anche uno status diverso: con villa o senza villa. I villastri si guardavano fra loro come una razza eletta. E i non villastri se ne uscivano mentendo che non posso allontanarmi da casa e ho la nonna con l’arteriosclerosi.
Nelle ville si sono riversati anche i profitti che sarebbe stato meglio lasciare nei commerci e nelle fabbrichette che ora boccheggiano mentre le ville non le vuole più nessuno neanche gratis. Invece dei capannoni, si moltiplicavano le ville. Invece di mettere da parte quattro soldi perché nella vita non si sa mai, si mettevano da parte metri quadri su metri quadri. Contro la svalutazione si puntava sul mattone. Che tanto è vero che non perde mai valore, da essere diventato ora l’unico valore per tutte le tasse anche se non ha più valore. Un contrappasso dantesco.
Le ville sarebbero un patrimonio, sono ora soprattutto un veleno allo stomaco. Che costano anche a far finta di non averle. Non vuoi almeno andare a curare il verde? E non devi pagare lo stesso il condominio anche se non mi vedono da due anni? E ogni tanto non lo devi trovare un tubo rotto che fa la macchia nella villa di quella a fianco che non c’è neanche lei ma vuole lo stesso che le aggiusti la macchia? Le Rosa Marina del tempo della crisi sembrano deserti abitati più da cartelli “fittasi” e “vendesi” che da esseri umani.
SOS DAL DESERTO – Però il problema non è solo economico ma sociale. Perché le residue ville abitate sono diventate una camicia di forza per annoiati proprietari che non sapendo come sopravviverci fra tante ville disabitate fanno partire l’invito: ci vediamo da me in villa. Un sudario di terrore. E chi va fino là? Poi la solita gente che ti deve chiedere tutti i fatti tuoi e vuole sapere dove vai in ferie. Poi io questo burraco lo odio proprio. Vai a vedere che fanno un compleanno, figurati se non fanno pure la lista e devi stare sempre a spendere. Con questo caldo mi metto una cosa addosso e non mi stessero a dire niente. Ma che ce ne importa a noi che non ci sentiamo più neanche a Natale e mica li abbiamo invitati nella villa nostra. Poi si va a finire sempre a mangiare, perché se no cosa devono fare?
C’è un segnale per capire quale villa dà gli ultimi sussulti di vita nel silenzio non rotto più neanche dalle cicale che se ne sono andate pure loro in Svizzera. E’ un segnale di fumo. Lì capisci che, più che una speranza, è accesa una brace. La quale tanto tenta di darsi un tono contro la frustrazione da essere diventata non meno chic di quanto presunsero le ville negli anni felici. La brace che sembra passata da nazional-popolare a campo di scontro fra i nuovi protagonisti delle riviste da parrucchiere: gli chef. Brace sulla quale escono altezzosi manuali che raccomandano pazienza, sensibilità, legno e temperature perfetti se non si vuole che la bistecca somigli più a una lapide che a una bistecca. La brace che ora si insegna anche all’università americana di Harvad. E che funziona solo se si realizza la reazione chimica di Maillard. Che nessuno ha mai saputo cosa significhi.
Per completare la Waterloo delle ville dell’era Merkel, basti solo dire che meno reazione di Maillard si ha, più fumo il barbecue produce. Quello che si immagina piacerà da morire agli entusiasti invitati dell’ultima villa: anche con la puzza addosso ce ne dobbiamo andare.
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