Parla da capo, rivendica il suo ruolo di mediatore di conflitti, si dichiara disponibile a parlare di cose che conosce e poi infila una lunga serie di «non lo conosco», negando accuse, conoscenze, frequentazioni mafiose. Si mostra gentile e aperto al dialogo, non dice nulla ma in qualche caso allude. Per esempio, quando parla della rete di protezione che gli ha garantito quindici anni di tranquilla latitanza.
È un assolato e caldissimo giorno di agosto, il 3 per la precisione, quando per la prima e unica volta Antonio Iovine, uno dei capi del cartello casalese, incontra il suo accusatore, il sostituto procuratore Antonello Ardituro.
Un faccia a faccia da lui stesso richiesto per raccontare alla maniera dei mafiosi i retroscena di una vicenda minima, se vogliamo, che lo vede protagonista e imputato: l’usura in danno di un odontotecnico.
A offrire il pretesto per squadrarsi e studiarsi vicendevolmente è l’avviso di chiusura delle indagini. Anche in caso di condanna, nulla cambierebbe per il Ninno bello, ergastolano con sentenza passata in giudicato. Ma l’elegante e raffinato camorrista, l’uomo delle lunghe vacanze a Parigi e delle serate al Gilda che iniziò a sparare e uccidere quando era ancora un ragazzino, non ha saputo resistere alla tentazione di guardare negli occhi il magistrato che era riuscito a interrompere la sua lunga e placida fuga.
Dunque, l’interrogatorio: in una saletta del carcere di Rebibbia, presenti l’avvocato di fiducia – Paolo Caterino – e un paio di ispettori della penitenziaria. Inizia alle 10,30 e si conclude quando mancano quattro minuti alle 13. Il verbale che lo riassume, secretato fino a ieri, quando è stato depositato nella cancelleria del giudice Antonio Cairo, occupa poco più di duecento righe dattiloscritte, cioè tre paginette e qualche spicciolo. Ed è un piccolo capolavoro di linguaggio mafioso, nel quale l’orgoglio del ruolo si sovrappone alla necessità difensiva. Ci tiene molto, Iovine, a vantarsi dei suoi successi di capo: nell’evitare un omicidio, nello scongiurare un suicidio, nel mettere a disposizione la sua influenza per ripianare un debito.
Parla anche delle ultime ore della sua latitanza, finita il 18 ottobre dell’anno scorso, quando la polizia lo trovò in casa di un muratore di Casal di Principe, Marco Borrata. Ufficialmente seguendo le tracce di un panettone. Introduce il racconto con una dichiarazione spontanea, perché nulla in merito gli era stato chiesto: «Ritengo che Borrata Marco mi abbia aiutato per sdebitarsi nei miei confronti in quanto tanti anni fa gli diedi un grosso aiuto e in particolare poiché egli stava avendo una brutta discussione con persone di Casale che si trovavano con lui a Modena, discussione che rischiava di portare delle brutte conseguenze per il Borrata. Io intervenni per tutelare la sua incolumità fisica». Poi, sibillino, aggiunge: «Posso dire che al momento dell’intervento per il mio arresto io ero lì lì dall’andare via da quella casa».
Parlando della storia per la quale è imputato, si presenta come un benefattore, solerte e affettuoso pater familias di tal Domenico Picone, odontotecnico nello studio di Vincenzo Corvino, sindaco a Casal di Principe all’epoca del Grande Blitz di Spartacus, pure lui imputato nello stesso processo.
Racconta Iovine: «Certo, ho conosciuto Picone Domenico nella fine dell’anno 1995 (il capo casalese era latitante da una ventina di giorni, ndr) per un problema di denti che avevo. Egli lavorava presso lo studio dentistico del dr. Vincenzo Corvino in Casal di Principe». E aggiunge: «Non so specificare bene il periodo ma ricordo che un giorno mi fu recapitato, anzi trovai un biglietto proveniente da Picone Domenico nell’abitazione ove mi nascondevo durante la mia latitanza. (…) In questo bigliettino era scritto da parte del Picone che egli si trovava in forti difficoltà economiche e che chiedeva il mio aiuto altrimenti avrebbe pensato al suicidio. Il bigliettino mi impressionò molto e decisi di incontrare il Picone per verificare se potevo dargli un aiuto. Fu così che lo incontrai nella casa di Diana Camillo e in quella occasione il Picone mi rappresentò i problemi economici con il Corvino ed anche alcuni problemi familiari che aveva con la moglie».
Ed ecco la mediazione: «Io dissi al Picone che doveva stare tranquillo ed evitare di pensare a questi gesti insani perché altri erano i problemi. Lo rassicurai dicendogli che avrei potuto parlare con il Corvino dicendogli di mostrarsi disponibile con il Picone per risolvere al meglio questa situazione». Un interessamento bonario, specifica, facendone un punto d’onore, «esclusivamente nel tentativo di dare conforto a questa persona che mi appariva disperata».
Qualche riga più giù, ecco un altro accenno alla sua latitanza e al «dispositivo» di protezione. Arriva in riferimento al documento d’identità che dalle mani di Picone era arrivato nelle sue. Antonio Iovine nega la circostanza e si concede un’altra allusione: «Sul punto devo dire che io avevo caratterizzato la mia latitanza su una estrema discrezione e mai mi sarei potuto procurare il documento con quelle modalità mettendo a rischio la tenuta stessa del dispositivo che avevo creato intorno a me».
Poi, dopo l’apparente disponibilità a parlare, il lungo elenco di risposte elusive. Per esempio: «Non intendo rivelare i nomi delle altre persone che in qualche modo sono stati interessati per questa vicenda».Oppure: «Ebbi la sensazione ad un certo punto che aveva timore a continuare ad avere rapporti con me tanto che lo lasciai perdere». E ancora: non lo conosco, non lo conosco direttamente, lo conosco perché è un mio paesano, non ricordo di averlo conosciuto, non ricordo di averlo incontrato recentemente. Salvo poi far mettere a verbale: «Sono disponibile a fornire qualsiasi chiarimento sulle vicende di cui in qualche modo posso essere a conoscenza».
Nelle carte non è scritto, ma s’immagina che abbia accompagnato l’ultima nota con un sorriso sarcastico e un ghigno.
Fonte: www.nazioneindiana.com/2011/11/01/terra-rosaria-capacchione
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