Oggi in un editoriale di giornale dovrei scrivere della violenza meteorologica, della violenza invasiva dell’uomo nei confronti del territorio, della violenta guerra tra poveri alimentata nelle periferie italiane da fascileghisti e sindaci incapaci, delle tensioni delle piazze non pacificate da 80 euro. Oppure scrivere delle minacce a Paolo Macry in Università a Napoli per i contenuti di un articolo o degli insulti sessisti alla giornalista Rai potentina Cinzia Grenci colpevole di aver fatto domande troppo difficili agli studenti in protesta.
Ma su alcuni fatti di cronaca, a volte e meglio riflettere e studiare, prima di prendere la parola.
Pero’ io in questa domenica, cari amici, preferisco tornare ad Itaca, la mia Cosenza, per rievocarvi lontani fatti dell’altro secolo.
Il 4 ottobre del 2014 lo stadio San Vito ha compiuto mezzo secolo. La squadra anche quest’anno ne ha compiuti cento.
Tanta memoria merita libri. Io oggi invece l’amarcord lo dedico a due sole partite del Cosenza.
Cosenza-Internapoli e Cosenza-Paganese. Due episodi che tra il 15 febbraio del 1970 e il 27 marzo del 1977 consegneranno alla mia città una patente di violenza bruta e irrazionale soprattutto per le cronache dei quotidiani nazionali che nel riferire i gravi fatti accaduti non risparmieranno commenti duri, come gli episodi richiedevano, ma anche con qualche coloritura razzista antimeridionale di troppo. Infatti in occasione del primo episodio non manca chi si metterà a titolare “Cosenza come Indù” equiparando l’invasione di campo del San Vito alla strage di avieri italiani avvenuta agli inizi degli anni Sessanta nell’ex Congo Belga da parte di milizie ribelli che si accanirono con particolare ferocia nei confronti dei nostri soldati. L’aggressione alla terna arbitrale avvenne per un rigore avverso ripetuto due volte.
La squalifica fu pesantissima. I fatti di Cosenza ebbero triste notorietà nazionale.
Nel 1977 Cosenza è cambiata. Precariato diffuso e gioventù creativa di movimento hanno assunto protagonismo come accade in molte parti d’Italia. La prima giunta di sinistra guidata da Pino Iacino ha mandato per la prima volta la Dc all’opposizione. A febbraio a poche ore dalla cacciata di Lama dall’università in piazza Stazione una manifestazione sindacale registra tensioni molto simili con feriti e fermati dalla polizia nello scontro tra diverse posizioni di sinistra. La città vive le stesse tensioni dell’Italia del compromesso storico. Allo stadio la tifoseria ha modificato i suoi costumi. Sono apparsi tamburi e striscioni. I primi giovani imitano i comportamenti della politica estrema vicino a borghesi in cravatta. La tribuna B ospita una moltitudine rumorosa e trasversale che unisce proletariato urbano, coatti da quartieri, malati di calcio, urlatori, esibizionisti e teppisti per caso. Il Cosenza è una squadretta senza arte né parte. La vecchia gloria Canetti gioca insieme a compagni di squadra che non lasceranno grande ricordo. Quel 27 marzo il Cosenza sfida la miglior Paganese di sempre. Non a caso l’undici di mister Rambone sfiorerà la serie B a fine campionato piazzandosi alle spalle del Bari.
Sul cielo del San Vito splende un tiepido sole primaverile. Ma i tifosi sono di umore nero. I fischi di contestazione sono sonori per l’apatia di gioco. Inconsapevole di quello che sta per vivere è l’arbitro della partita. L’arbitro è Soncini di Bologna coadiuvato dai giudici di linea Ruggeri suo concittadino e Balbò di Ferrara.
La Paganese all’inizio del secondo tempo passa facilmente. Tre minuti e accade lo scatafascio. Su un innocente traversone finito nelle braccia del portiere cosentino Pingitore l’arbitro Soncini prende un vistoso abbaglio e assegna un rigore più inesistente del cavaliere narrato dal romanzo di Italo Calvino. L’evidente ingiustizia subita e l’acedia maturata da tempo attorno ad una squadra brocca e farlocca mescola una miscela esplosiva. Dalla tribuna B partono sassi all’indirizzo del guardalinee Balbò. Nel caos i nerostellati della città dove fu scritta “Tu scendi dalle stelle” piazzano la terza rete. In tribuna, intanto, hanno divelto due o tre sedili di granito della tribuna. La sassaiola è consistente nei confronti di Balbò. Sancini ordina la ritirata e guadagna gli spogliatoi. La fine anticipata anima i più esagitati. Si muovono gli epigoni di Cosenza-Internapoli. Giovani e vestiti di jeans. In larga parte vengono da Cosenza vecchia, via Popilia e dal “Far west” di San Vito. Ladri di autoradio e giovani soldati delle emergenti bande criminali del circondario. Pochi mesi dopo “U zorro” sarà ucciso davanti al cinema Garden e nulla sarà più come prima. Ma quella è un’altra storia.
La nostra racconta invece di un cancello di ferro posto fuori dalla porta esterna centrale della Tribuna B. La forza bruta la solleva con facilità. Un alberello viene sradicato con intenzioni bellicose. La porticina di legno che da accesso agli spogliatoi cede con facilità. La carica è di corsa. La terna arbitrale finisce nelle mani dei suoi carnefici. Fonti anonime dell’epoca riferiranno che uno dei malcapitati avrebbe invocato “pietà” ricevendone ben poca. E’ lo stesso copione dell’altra volta. Un nuovo linciaggio al chiuso forse interrotto dall’intervento dei dirigenti del Cosenza. Anche questa volta sparisce un portafoglio. Una lettera strappata in mano ad alcuni tifosi alimenterà una leggenda urbana sulla presunta prova della partita venduta. Una balla senza nessun costrutto.
Ma non è ancora finita. Ultrà in formazione, qualche estremista di destra e sinistra confusi nella vicenda sportiva nonostante vestano divise diverse, studentelli in libera uscita marciano verso la porta carraia e la aprono senza colpo ferire. I sassi bersagliano i vetri del bus della Paganese. Avanzano timidamente nella loro goffaggine quattro poliziotti e due vigili urbani. Lanciano un paio di lacrimogeni subito rimandati al mittente secondo costume d’epoca. Il quadro d’assieme sembra una foto di copertina dell’Espresso del periodo.
Come con l’Interpoli arbitro e guardalinee escono con il buio per essere portati a destinazione. Nessun fermato. Non c’era Daspo né indagini né telecamere a quel tempo. Solo giustizia sportiva. Ancora una volta implacabilmente pesante. Lo stadio San Vito sarà squalificato fino al 30 settembre del 1978. Il clamore mediatico è diverso dalla precedente invasione. Il calcio violento era diventato più rituale e l’Italia era preoccupata da guerre civili ben più consistenti. Qualcuno potrà chiedersi perché ho evocato questa rimossa storia, ma il filosofo forse non scrive de “la necessità del negativo”. Forse ciò che è stato doveva essere. Forse. Come i tanti forse delle nostre giornate.
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