Chi pagherà il conto salato dell’emergenza rifiuti in Campania? E, soprattutto, quando si uscirà dalla crisi facendo risparmiare un bel po’ di quattrini ai napoletani?
Fino ad ora, la (mala)gestione dei rifiuti in Campania è costata una cifra astronomica. Nel periodo della crisi, ad esempio, sono stati spesi dai diversi commissari che si sono alternati alla guida del settore qualcosa come 11 miliardi di euro, quasi due leggi finanziarie. Per dare solo un’idea delle quantità basterebbe dire che oggi, per bloccare l’aumento dell’Iva, servirebbero 2 miliardi e per cancellare l’Imu sulla prima casa 4 miliardi. In tutto, appena la metà di quanto si è speso in Campania per gestire i rifiuti.
Dopo la fase dell’emergenza è scattata quella ordinaria e i costi per l’amministrazione centrale sono diminuiti. I leghisti saranno contenti anche perché tutte le spese si sono scaricate sui contribuenti napoletani che attualmente hanno la tassa dei rifiuti più alta d’Europa. Per un appartamento di un centinaio di metri quadri si pagano fra i 600 e gli 800 euro all’anno. Non sono affatto pochi in tempo di crisi economica.
Ma quello dei rifiuti resta, comunque, un pozzo senza fondo. Partiamo dagli ultimi interventi previsti. Per il completamento del termovalorizzatore di Acerra, incluse le somme per i fornitori che vantano crediti con le società appaltatrici sono stati spesi 40 milioni di euro. Un’altra ventina di milioni sono stati utilizzati per la riconversione degli impianti di selezione e trattamento dei rifiuti in strutture per il compostaggio e la raccolta differenziata. L’investimento più consistente, di 84 milioni di euro, è per l’attivazione di nuove discariche.
Per la forza lavoro «viene stimata una spesa di 12 milioni di euro circa», e in questo capitolo dovrebbe esserci anche il “bubbone” dei consorzi di bacini. Nel fondo per le emergenze che prevede una dota di 15° milioni ci sono circa 3 milioni per «possibili nuove maggiori esigenze, per acquisizione di cave e di siti, e per indennizzi».
C’è poi la questione delle ecoballe di Giugliano, che costano ogni anno 1,6 milioni di euro solo per pagare il fitto dei terreni che le ospitano. In tutto, lo stoccaggio costa 150 euro a tonnellata. E, dal momento che la montagna di spazzatura è lì da almeno dieci anni, stiamo parlando di una cifra vicina ai 16 milioni di euro. Se non è spreco questo?
In generale, ogni anno mandiamo fuori regione 600mila tonnellate di rifiuti su una produzione complessiva di 1,6 milioni. In sostanza, più di un sacchetto su tre va all’estero. Con costi praticamente raddoppiati. Infatti, se lo smaltimento medio in un piano di incenerimento in Italia costa fra 50 e 60 euro a tonnellata, la cifra per realizzare la stessa operazione fuori nazione costa fra i 120 e i 130 euro. Un costo non più sostenibile, come ha ammesso la stessa Regione. In più, in alcuni casi, come ad esempio per i rifiuti mandati in Olanda, si tratta della cosiddetta frazione secca che potrebbe essere smaltita anche ad Acerra.
A completare, poi, il quadro finanziario, ci sono i debiti accumulati dai comuni nei confronti delle società che forniscono il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. Stiamo parlando di una cifra astronomica, 676 milioni di euro, che in una situazione di crisi come questa e con il taglio di ogni nuovo trasferimento, rischia di trasformarsi nell’ennesima mina pronta ad esplodere.
Ma, naturalmente, questi sono solo i costi, per così dire, economici. Ai quali bisogna aggiungere quelli, più gravi, relativi alla salute dei cittadini. Danni come tumori al polmone e al fegato, linfomi e sarcomi, malformazioni congenite cresciute dell’84%. Fino ad un’impennata di mortalità del +12% per le donne e del +9% per gli uomini. Numeri, statistiche, cifre, percentuali, messi nero su bianco da un team di circa 30 ricercatori, in uno studio scientifico commissionato dalla Protezione Civile.
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