Torno a parlare di criminalità organizzata a Napoli, dopo il precedente post che ha scatenato appassionati commenti di vario tenore. Crimine e violenza con episodi di diversa origine e un’unica motivazione: la sopraffazione, scelta come metodo di guadagno e di identità sociale.
Mi riferisco soprattutto agli episodi più recenti: la rapina tentata a Ercolano nei confronti di un gioielliere e l’ultimo agguato mortale a Ponticelli, che ha avuto per bersaglio Nunzia D’Amico, esponente di una famiglia clan di camorra. Il gioielliere ha reagito, ha sparato e ha ammazzato i due rapinatori. Ora ha dovuto lasciare la Campania, perchè minacciato dai fratelli di uno degli uomini che ha ucciso.
Nunzia D’Amico è invece vittima di un’altra della tante schegge impazzite di tensioni, rivalità e contrasti di morte tra gruppi di camorra, vecchia o inventata, che, in varie zone della città, si contendono piccoli spazi per spaccio ed estorsioni. Ripetersi a volte rischia di provocare assuefazione, insofferenza, noia. Eppure, se non nasce una vera reazione diffusa – etica, di indignazione, di difesa dall’arroganza del camorrismo violento – non c’è futuro per nessuno. Nella notte tre il 24 e 25 ottobre prossimi, nel quartiere Vomero non si terrà la “notte bianca”, perché quest’anno sarà sostituita da una “notte della legalità” con manifestazioni diverse. E’ segno che i sorrisi si stanno spegnendo, che c’è poco da festeggiare a Napoli e molto da riflettere. Riordinando i miei archivi, ogni tanto ricompaiono scritti interessanti che mi riportano indietro, facendomi riflettere su come sembra condannarci quell’immutabilità che rifuggo, che respingo come rassegnazione e alibi al non fare.
Ho trovato ad esempio il testo di un intervento del professore Giovanni Pugliese Carratelli, tenuto all’Istituto per gli studi filosofici nel 1997. Quasi 20 anni fa. Un discorso ristampato anche in un bel libro-antologia di suoi scritti, pubblicato di recente dall’editore Rubbettino a cura di Gianfranco Maddoli: Umanesimo napoletano. Ebbene, il professore scomparso nel 2010 a 99 anni, affrontando il rapporto tra cultura antica e problemi del Mezzogiorno, parlava di “disagio e smarrimento interiore per vicende frutto anche di una lunga desuetudine dall’impegno civile e da ogni forma di vita culturale”.
Toccava un nodo su cui si insiste anche oggi, 20 anni dopo, aggiungendo: “Quando si dà rilievo a persistenti fenomeni di criminalità che infrangono sentimenti a tutti comuni, è giusto chiedersi preliminarmente quali siano le condizioni in cui si svolge la vita spirituale di tanti abitatori di quelle zone”. Ho rapinato, spacciato, estorto, ucciso perchè non c’è lavoro, perchè lo Stato è assente, perchè vivo in un porcile pieno di spazzatura e degrado. Quante volte si sono sentite queste motivazioni dagli arrestati e dai loro familiari. Eppure, sul fenomeno criminale le letture socio-economiche mostrano sempre i loro limiti perchè sembrano senza soluzione. Pugliese Carratelli insisteva, per questo, anche sui “modelli di vita” e chiamava in causa, con le sue parole poco dirette ma comprensibili, scuola, educatori, chi deve offrire alternative e insegnamenti.
Aggiungeva: “Quanto impegno la comunità nazionale ha messo affinché le condizioni di vita diventino non inferiori a quelle della maggior parte dei loro connazionali e un’istruzione che sia autenticamente tale delinei anche per loro orizzonti diversi da quelli, fatalmente angusti, che sono proprii di una visione del mondo prevalentemente edonistica, a cui invitano tante volgari e vacue forme di comunicazioni di massa che più facilmente di altre penetrano in quelle zone”.
Un’analisi straordinariamente attuale, in un momento in cui nel dibattito sui modelli educativi e culturali più diffusi in città entrano anche le famose fiction sulla criminalità organizzata. Rischi e pericoli, dunque, dai precedenti ventennali. Si assiste ad un appiattimento di modelli, di estetica, di atteggiamenti che tende al basso: giovani vestiti tutti allo stesso modo, nelle periferie come nei cosiddetti quartieri bene; idoli violenti in comune.
E allora, che città impazzita è questa? Un sociologo della criminalità, purtroppo scomparso troppo presto, un amico con cui ho condiviso seminari e convegni, e mi riferisco ad Amato Lamberti, aveva le idee chiare. Ho ritrovato una sua bella intervista di 7 anni fa, concessa al giornalista-intellettuale Andrea Manzi. Ecco come Lamberti definiva Napoli, riprendendo la definizione di non luogo coniata dal filosofo Aldo Masullo: “E’ una città amorfa, apatica, ma che sia diventata un non luogo è un’ipotesi che non mi trova d’accordo. Napoli, semmai, è sempre stata un non-luogo. Nei testi del ‘300 si parla di una città di ruffiani, di criminali con l’aria irrespirabile”.
Un ragionare per eccesso, come era proprio di Amato che sosteneva come la camorra fosse un ammortizzatore sociale nelle periferie, che evitava rivolte e ribellioni. Riflessioni amare, in un momento in cui se ne sono fatte tante, troppe. In cui sembrano essere saltati tutti i parametri di riferimento culturale e in cui si avverte smarrimento diffuso contro l’arroganza della prevaricazione, della volgarità, della cultura del camorrismo da sopraffazione che ammorba tutti. Eppure, come ha ripetuto un mese fa il procuratore della Repubblica di Napoli, Giovanni Colangelo, la repressione non è tutto se vogliamo avere speranza.
Ne era convinto, 20 anni fa, anche Pugliese Carratelli, quando sosteneva: “La doverosa azione degli organi deputati ad assicurare il rispetto delle leggi dello Stato non basta a correggere deviazioni che nascono da un distacco, certamente non voluto ma troppo a lungo durato, dalla vita dell’intelletto. Lo stato patologico che ne è derivato richiede una terapia spirituale; e questa non può essere attuata che da uomini che siano ben consapevoli che realmente creative, nella storia, sono unicamente le forze dello spirito”.
C’è amarezza, nel rileggere queste parole. Saranno state pronunciate pure da un grande studioso soprattutto di cultura e filosofia antica, dall’allievo di Croce che si è occupato sempre di altro, immerso nello studio e nel culto del libro, ma restano parole piene di saggia verità. Sembrano astratte, eppure sono un lumicino da seguire. L’amarezza è nel vedere che quasi tutti, pur riconoscendo la fondatezza di un’analisi e di una soluzione come questa, non sanno da dove e come cominciare. E’ così. Amarezza.