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La #desertificazione del #Sud è solo colpa dei meridionali?
10 Set 2015 09:16

Più di centomila micro imprese create nel giro di pochi anni, per circa 220 mila occupati, prevalentemente giovani e donne. Tutto questo è avvenuto nel Sud, grazie ai fondi in favore dell’autoimpiego e dell’autoimprenditorialità.

L’annuncio, a metà agosto, dello stop alla misura per esaurimento delle disponibilità, peraltro relativamente modeste, non poteva passare sotto silenzio. La contraddizione tra i fatti  – minuscolo ma dissetante rubinetto strozzato – e le parole – reazioni di premier e governo ai traumatizzanti dati Svimez sul disastro Sud, con promesse di masterplan e valanghe di euro (70-80 miliardi) a sostegno del Mezzogiorno prossimo futuro  – era troppo stridente per passare inosservata.

Notizie come questa non sono eccezionali. Il regime di austerità imposto al meridione negli ultimi venti anni, con poche soluzioni di continuità, dai vari governi succedutisi alla guida dello Stivale, tra mancati pagamenti alle imprese da parte delle varie PA e addizionali Irpef e Irap che accrescono la pressione fiscale ben oltre la media nazionale, ricorda il famoso vizio del prete che predica bene e razzola male: come Paese abbiamo imputato alla Germania quello che, in concreto, realizzavamo a casa nostra.

La domanda che mi pongo, che pongo, è: ma la tragedia Mezzogiorno è solo colpa dei meridionali?

Aggiungendo subito: la questione non mi interessa ai fini di istruire processi diretti ad addebitare responsabilità. I Borbone lasciamoli agli storici. Che Napoli fosse nel 1860 la città di gran lunga più importante d’Italia, oltre al Nitti citato recentemente da De Masi, lo hanno ribadito agli anni nostri studiosi dalle origini insospettabili, quanto a partigianeria, come la belga Stephanié Collet.

Non è questo che conta oggi. Quello che mi preme chiarire è altro. E’ vero o non è vero che la cultura territorialista di ispirazione leghista ha condizionato pesantemente la politica e la conseguente legislazione interna del nostro Paese?

Vi è stata o non vi è stata una drastica diminuzione dei trasferimenti dallo Stato centrale alle regioni meridionali?

E’ vero o non è vero che la gestione politico economica degli ultimi anni di recessione ha inciso in maniera determinante su una distribuzione iniqua del fardello, nel senso che il Sud ha pagato in Pil e occupati molto più del resto del Paese?

Se si è tutti d’accordo su questi dati – e per quante contorsioni si possano fare, è difficile manipolare i numeri! – mi permetterei di porre altri due quesiti:

1) La drastica compressione dei consumi registratasi a Sud del Garigliano è stata funzionale agli interessi del Paese? O hanno ragione coloro che, come Srm, evidenziano che sarebbe stato meglio favorire investimenti nel Mezzogiorno, anche perché il 40% di quanto erogato torna a beneficio dell’economia del Centro-Nord?

2) Posto che sussistano dubbi e incertezze sull’opportunità di politiche dei due tempi, che affidino a un Nord ‘presunto motore italico’ il compito di rilanciare la marcia e trainare anche chi proceda al rallentatore, chi rappresenta ragioni e istanze del Sud?

Il declino dell’intero sistema Italia avvenuto in questo inizio di millennio induce obiettivamente a concordare con Srm. Quanto alla seconda risposta, formalmente è scontata. I vessilliferi del Sud sono i parlamentari meridionali, chi altro?

Il problema è che, come una catena di montaggio, domanda genera domanda. E il nuovo nodo da sciogliere, sulla base del ragionamento abbozzato, è: ma gli eletti del Mezzogiorno cosa facevano quando la berta Bossi (e poi Maroni e poi Salvini), filava il suo tessuto divisorio, con beneplacito dei partiti maggiori del centrodestra e del centro sinistra? Quando i fondi della coesione territoriale andavano a finanziare i cassintegrati in deroga, per ovvi motivi presenti massivamente ben oltre il Garigliano? Quando il federalismo pasticciato, ‘all’italiana’, veniva codificato per usare criteri standard o storici secondo le convenienze sociali e politiche del Centro-Nord?

La provocazione che lancio, io che rifuggo dall’idea di una contrapposizione uguale e contraria tra i territori, è: siamo proprio sicuri che la crescita, anche rivendicazionista, di un movimento meridionale non sia cosa buona e giusta?

Se questo fenomeno inducesse finalmente un risveglio delle coscienze anche nei partiti ‘tradizionali’, se i criteri di selezione della nuova classe dirigente politica meridionale venissero informati a una salutare, maggiore attenzione alla gestione equilibrata di politiche e normative nazionali, non sarebbe un grande passo in avanti?

Lungi da me riprendere chiavi interpretative della realtà che hanno fatto il loro tempo, ma, nel caso specifico, una dialettica fertile non potrebbe finalmente sfociare, come sintesi, in un futuro migliore per l’intero Paese?


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