Un rapporto e una indagine, diffusi ad un giorno di distanza l’uno dall’altra, in pieno dibattito sulla Legge di Stabilità. Tante cifre e una sola comune infelice conclusione: il Sud è stato “desertificato” dalla crisi degli ultimi anni. Due autorevoli centri di ricerca: Svimez e Bankitalia. E poi quella “manovrina”, “una cura omeopatica per un malato grave, l’economia italiana”, scrivono gli economisti de “La Voce”. Che aggiungono: “L’unica stabilità ottenuta, forse, è quella del Governo”.
Secondo la Svimez occorre rilanciare una visione strategica di medio-lungo periodo, che veda nella riqualificazione urbana, energie rinnovabili, sviluppo delle aree interne, infrastrutture e logistica i principali drivers dello sviluppo di un Mezzogiorno il cui Pil nel 2012 è calato del 3,2%, oltre un punto percentuale in più del Centro-Nord, pure negativo (-2,1%). Per il quinto anno consecutivo, dal 2007, il tasso di crescita del PIL meridionale è negativo. Dal 2007 al 2012, il Pil del Mezzogiorno è crollato del 10%, quasi il doppio del Centro-Nord (-5,8%).
Bankitalia va oltre. Oltreconfine. Mette a confronto il nostro Mezzogiorno con le regioni spagnole in ritardo di sviluppo: Andalusia, Castiglia La Mancia, Estremadura, Galizia, Murcia e Principato delle Asturie. Bene per loro, male per noi: lì tra il 2001 e il 2007 il Pil è cresciuto del 23,9% in e dell’11,7% nelle regioni tedesche, cinque – Brandeburgo, Meclemburgo-Pomerania Anteriore, Sassonia, Sassonia Anhall e Turingia – anche loro fanalino di coda dell’economia della Germania. Rispetto al Mezzogiorno il Pil in queste aree è rispettivamente il sestuplo e oltre il triplo della crescita rilevata nel Sud Italia. E poi: se la crescita delle regioni meridionali è pari circa alla metà di quella italiana in Spagna e Germania le regioni più arretrate sono cresciute di più della loro media nazionale.
Il sistema produttivo del Mezzogiorno, troppo frammentato e sbilanciato verso produzioni di beni tradizionali a basso valore aggiunto e poco propense all’innovazione, ha pagato lo scotto soprattutto in termini di esportazioni, livelli di produttività, redditività. Nel 2007, il livello di valore aggiunto dell’industria meridionale era fermo ai valori del 2001, mentre dal 2001 al 2007 nelle aree arretrate della Germania e della Spagna è cresciuto rispettivamente del 40% e del 10%.
Dal 2007 al 2012 secondo valutazione Svimez il manifatturiero al Sud ha ridotto il proprio prodotto del 25%, i posti di lavoro del 24% e gli investimenti addirittura del 45%. Il valore aggiunto del manifatturiero sul totale al Sud è sceso dall’11,2% del 2007 al 9,2% del 2012, un dato ben lontano dal 18% del Centro-Nord e dal target europeo del 20%.
Nell’ultimo decennio è aumentato il gap tra l’industria meridionale e quella del Centro Nord, l’occupazione si è ridotta del doppio e gli investimenti sono crollati: questo si legge nello studio “L’industria meridionale e la crisi” di Bankitalia, basato sui bilanci di 20 mila società di capitali, con sede nel Mezzogiorno, e sulle interviste, condotte semestralmente, alle imprese.
“L’industria meridionale ha accentuato il ritardo con quella del Centro Nord: tra il 2007 e il 2011 il valore aggiunto industriale delle regioni meridionali si è contratto di oltre il 16%, a fronte del 10% in quelle centro-settentrionali, per il suo maggior orientamento verso la componente interna della domanda, più colpita dalla crisi. La riduzione dell’occupazione – si aggiunge – è stata più che doppia rispetto al Centro Nord, anche per effetto della minore copertura nel sud degli ammortizzatori sociali e per una struttura produttiva più concentrata sulla piccola dimensione d’impresa”.
Gli investimenti industriali sono crollati, con una riduzione tra il 2007 e il 2010 del 13,7% (2,7% nel Centro Nord). Secondo il docente di Scienze delle Finanze, Vito Peragine, dell’Università di Bari, “dagli studi della Banca d’Italia emerge una duplice convinzione: la prima è che la ripresa dell’economia italiana è indissolubilmente legata al miglioramento dell’utilizzo delle risorse produttive del Sud; la seconda è che lo sviluppo di un’area di dimensioni rilevanti come il Mezzogiorno non può fare a meno di un apporto significativo del settore industriale, come mostra anche l’esperienza di altre regioni europee in ritardo di sviluppo”.
Il punto centrale per il Mezzogiorno sono senza dubbio le risorse europee, sono le risorse dei fondi strutturali e quelle del Fondo nazionale di Coesione e Sviluppo. Lo ha detto il capo dello Stato all’incontro dei giovani di Confindustria e ha aggiunto che “è fondamentale per utilizzare rapidamente e bene le risorse, soprattutto europee, una forte concentrazione e che quindi la creazione dell’Agenzia di Coesione Territoriale è un segnale per il cambiamento delle Istituzioni che è indispensabile per non ripetere i fallimenti del passato”.
La Legge di Stabilità stanzia significative risorse per il nuovo ciclo di programmazione dei Fondi europei e nazionali per le politiche di coesione territoriale, impegnando il governo a fare la propria parte per i prossimi anni in modo strutturato con il concorso di Ue e regioni. In particolare:
■ 24 miliardi di euro di quota di compartecipazione nazionale (che si aggiungono ai quasi 30 miliardi di fondi strutturali UE);
■ ulteriori 55 miliardi per il Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (ex Fondo Fas), di cui l’80% in favore del Mezzogiorno.
In totale si arriva quindi a circa 110 miliardi di euro nei prossimi sette anni per le politiche di coesione territoriale.
E chissà che si traducano in opportunità per il Mezzogiorno dove nel primo trimestre 2013 sono stati persi 166mila posti di lavoro rispetto all’anno precedente, 244mila nel Centro-Nord. Gli occupati nel Mezzogiorno sono scesi così nei primi mesi del 2013 sotto la soglia dei 6 milioni: non accadeva da 36 anni, dal 1977; dove la disoccupazione reale supera il 28%; dove crescono le tasse e si tagliano le spese, dove una famiglia su 7 guadagna meno di mille euro al mese e in un caso su quattro il rischio povertà resta anche con due stipendi in casa.
Un Sud dove nel 2012 anche il numero dei morti ha superato quello dei nati. Voltandosi indietro era accaduto solo due volte: nel 1867 poco dopo l’unità e nel 1918 per l’epidemia della spagnola.