Industria, Italia, Mezzogiorno. Senza un significativo sviluppo della base industriale è difficile immaginare una crescita o anche il solo mantenimento, dei livelli di benessere del Mezzogiorno. Il ruolo della base industriale è fondamentale per tutte le regioni e le nazioni che hanno raggiunto, o vogliono raggiungere, avanzati livelli di sviluppo. L’industria resta il luogo dell’innovazione, la componente dell’economia con maggiori incrementi di produttività; genera una domanda molto ampia di servizi e induce una rilevante quota dell’occupazione terziaria; genera redditi da esportazioni che consentono di bilanciare l’import energetico e primario e di tutti quei beni, intermedi e finali, differenziati e ad alto contenuto tecnologico che non si è in grado di produrre. Il Mezzogiorno non è una regione povera; è però caratterizzato da due rilevanti problemi macroeconomici e quindi sociali. Da un lato, l’insufficiente capacità di generare una domanda di lavoro pari all’offerta disponibile, che dà luogo a grandi problemi di disoccupazione, sottoccupazione ed emigrazione, che ne riducono notevolmente quantità e qualità dei livelli di sviluppo, innescando circoli viziosi (emigrazione dei “cervelli”; contrazione della base fiscale locale). Dall’altro, l’insufficiente capacità di generare redditi da esportazioni (interregionali o internazionali) per finanziare la sua necessità di importazione di beni e servizi. Ciò dipende dalla dimensione e dalla composizione dell’offerta; ed in particolare dal peso della manifattura (e dei servizi a maggiore contenuto tecnologico) sul valore aggiunto: nel Mezzogiorno è inferiore non solo alla media italiana, ma anche a quello delle regioni in ritardo di sviluppo della Germania e della stessa Spagna. Tuttavia, senza un forte sviluppo del Mezzogiorno, ed in particolare della sua base industriale, è difficile immaginare una vera ripresa per l’Italia. Il Sud continua a rappresentare un mercato di sbocco fondamentale della produzione nazionale; ancora oggi, stando a recenti stime di Intesa San Paolo accoglie il 26,5% della produzione del Centro Nord (contro un peso pari al 9,1% degli altri paesi dell’Unione Europea): la crescita del suo reddito traina lo sviluppo del reddito nazionale, mentre non avviene il contrario: è il Mezzogiorno la possibile “locomotiva” dello sviluppo dell’Italia. Gli investimenti nel Mezzogiorno attivano una consistente produzione nel resto del paese (anche in questo caso non succede il contrario); cento euro di investimenti al Sud attivano produzione per 40 euro nel Centro Nord. I trasferimenti impliciti operati dal bilancio pubblico a favore del Sud corrispondono al flusso di importazioni di beni e servizi dal Centro Nord. Tuttavia la sostenibilità di tale modello bi-regionale è messa progressivamente in discussione tanto dall’affievolirsi del consenso politico, quanto dalle crescenti difficoltà di finanza pubblica, e dall’operare delle politiche economiche. E’ dunque fondamentale che, anche attraverso una maggiore produzione industriale, il Mezzogiorno possa accrescere la quota direttamente prodotta del reddito disponibile. Per un lungo periodo, principalmente fra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta dello scorso secolo, il Mezzogiorno ha conosciuto uno straordinario, intensissimo, processo di sviluppo industriale. Sono stati lungamente, anche se forse non ancora compiutamente, analizzati gli aspetti positivi e negativi di questo processo così accelerato. Certamente, tuttavia, esso ha coinciso, e in parte lo ha determinato, con il periodo di più intensa e accelerata crescita del benessere nell’intero Paese, con un vero e proprio “miracolo italiano”. Si pensi solo allo straordinario effetto positivo dato dallo sviluppo delle produzioni industriali di base, ubicate nel Mezzogiorno, sullo sviluppo dei settori a valle, dall’automobile agli elettrodomestici, alla chimica. Da allora, molto tempo è passato e tale processo è dapprima rallentato, e poi sfociato in una vera e propria, intensa e pericolosa, deindustrializzazione. Quali condizioni esistono, o meno, oggi, per immaginare un’inversione di tendenza, e quindi una ripresa del processo di industrializzazione del Sud, naturalmente con caratteristiche e strumenti completamente diversi da quelli immaginati e attuati molti decenni fa? Diverse circostanze sembrano rendere quasi impossibili sviluppi positivi. In primo luogo non vi è consenso politico circa l’opportunità, o la stessa possibilità, di un processo di industrializzazione del Sud. Allora, forte era il consenso fra le elite politiche ed economiche italiane sulla necessità di una tale trasformazione, e sulla sua rilevanza ai fini dello sviluppo dell’intero paese. Oggi non vi è traccia di interesse né di proposta. In secondo luogo sono completamente diverse le condizioni macroeconomiche di contesto: lo sviluppo industriale è assai più possibile all’interno di un complessivo processo di crescita del reddito; esso ne è contemporaneamente causa ed effetto. Se è vero che solo una ripresa dei processi di accumulazione può determinare un aumento di lungo periodo dei redditi, è altrettanto vero che quando le risorse disponibili sono scarse, esse difficilmente vengono allocate agli investimenti (come avviene oggi in Italia). In terzo luogo, la complessiva impostazione macroeconomica nel nostro paese – in coerenza con le decisioni a scala comunitaria – mira esclusivamente al controllo di breve periodo delle variabili di finanza pubblica, e non si pone obiettivi di sviluppo di lungo periodo. Ancora, vi sono motivi collegati al quadro internazionale. Le regioni più deboli del Paese, e in certa misura tutte le regioni italiane, soffrono di una concorrenza enormemente accresciuta su molte attività produttive di tradizionale specializzazione. A ciò si aggiunge una rilevante concorrenza localizzativa all’interno dell’Unione Europea. L’incompleta costruzione delle regole europee, ed in particolare i mancati progressi nell’armonizzazione fiscale, rendono assai più competitive altre aree dell’Unione Europea, caratterizzate da una tassazione assai minore sul lavoro e in particolare sull’impresa, oltre che da costi del lavoro molto più contenuti. Infine, il Mezzogiorno appare ancora oggi caratterizzato da una dotazione infrastrutturale, da una quantità e qualità dei servizi pubblici disponibili per le imprese, da un’efficienza delle pubbliche amministrazioni ancora nettamente inferiore a quelle medie, non esaltanti, del paese. Condizione che può essere rimossa solo nel lungo periodo: ma che con gli attuali ritmi di investimento pubblico, e con i forti tagli in corso ai servizi pubblici difficilmente verrà rimossa. Potrebbe invece aggravarsi. Se è vero che condizioni infrastrutturali e di dotazione di servizi pubblici al momento della prima grande industrializzazione del Mezzogiorno erano ben peggiori rispetto ad oggi, è anche vero che per il funzionamento delle economie industriali dell’epoca le condizioni di contesto in cui un’impresa si collocava erano meno importanti. Il Mezzogiorno soffre oggi contemporaneamente di una doppia “trappola dello sviluppo”. Da un lato “la trappola del dualismo”; è area debole di un paese relativamente forte, nel quale sono molto rilevanti i fattori, di natura economica, sociale, politica, che spingono lo sviluppo a concentrarsi sempre più nelle aree più forti. La convergenza regionale non è un fenomeno spontaneo, né in Italia né altrove, come mostrano bene tutti i dati internazionali; i fenomeni di polarizzazione sono al contrario spesso cumulativi. Le politiche di austerità stanno fortemente accentuando questi fenomeni: la ripartizione molto squilibrata territorialmente, a danno del Mezzogiorno, dell’aumento della pressione fiscale locale e dei tagli alla spesa pubblica ha prodotto un significativo aumento della divergenza Nord-Sud in Italia dopo il 2011. Dall’altro “la trappola del paese a medio reddito”. E’ parte di un paese che non si colloca né nel gruppo dei grandi innovatori, con forti investimenti in ricerca e un’elevata qualificazione del capitale umano né in quello degli inseguitori emergenti, cui apparteneva in un tempo ormai lontano. Il rischio è di perdere le produzioni più sofisticate a vantaggio dei primi, quelle più standardizzate a vantaggio dei secondi.
Fortunatamente, vi sono anche alcuni fattori che, oggi diversamente da allora, possono consentire una ripresa del processo di industrializzazione del Mezzogiorno. In primo luogo il tessuto industriale del Sud ha presenze significative, per quanto fortemente concentrate in alcune delle sue aree. Esse attengono sia a grandi imprese esterne, sia a imprese locali. Le produzioni meridionali giocano un ruolo molto importante, a scala nazionale ed europea, nell’industria automobilistica ed aereonautica, nelle produzioni energetiche, nella metallurgia; sono significative e diffuse nelle trasformazioni alimentari; vi sono interessanti presenze in diversi settori di manifattura leggera, nelle meccaniche, così come in altre produzioni tecnologicamente avanzate. Rimane significativa – anche se su livelli inferiori rispetto al passato, e assai inferiori al Centro Nord – la presenza di distretti industriali nel Mezzogiorno. La manifattura del Sud è ancora oggi, dopo i terribili anni di crisi, superiore per dimensione assoluta (anche se certamente non relativa) a quella di paesi come Finlandia, Danimarca, Portogallo. In secondo luogo, il Sud dispone di una vasta offerta di capitale umano qualificato. I tassi di scolarizzazione, anche a livello universitario, fino a qualche anno fa si sono notevolmente incrementati. Pur restando, come del resto quelli dell’intero paese, significativamente al di sotto delle medie europee e dei valori di molte regioni emergenti, essi si traducono in un’offerta di capitale umano, soprattutto giovane, con conoscenze e capacità di livello elevato. Il costo del lavoro, pur risultando per ovvi motivi superiore a quello delle aree esteuropee – e ancor più asiatiche – emergenti, è significativamente inferiore a quello che si registra tanto nell’Italia Centro-Settentrionale (grazie alla differenziazione salariale indotta principalmente dalla contrattazione di secondo livello) e ancor più, molto, rispetto ai livelli dell’Europa Centro-Settentrionale. Si sono venute creando anche alcune condizioni geopolitiche ed economiche favorevoli. E’ scomparsa la cortina di ferro, che limitava la proiezione internazionale verso Est delle produzioni meridionali, specie di quelle del settore orientale. Non piccola è stata l’integrazione realizzatasi con l’Europa SudOrientale. Soprattutto il prepotente emergere delle economie asiatiche, e i flussi commerciali da queste indotti, hanno determinato una nuova centralità delle localizzazioni mediterranee nei traffici internazionali. Il Sud d’Italia (in particolare alcuni suoi luoghi, come Gioia Tauro e Taranto) è collocato baricentricamente come possibile crocevia degli scambi europei con l’Oriente e il Nord America. Gioia Tauro e Taranto sono i luoghi europei contemporaneamente più vicini, in termini di trasporto marittimo, alla costa orientale degli Stati Uniti e all’Asia. Ciò può determinare un grande vantaggio localizzativo per industrie che da questi traffici traggono alimentato, così come di quelle collegate alla logistica e all’assemblaggio. Tutto ciò può essere favorito dalla nuova organizzazione internazionale di molte produzioni in catene del valore, che permettono una localizzazione differenziata di molte fasi produttive. Una strategia di industrializzazione del Mezzogiorno è dunque missione assai difficile e profondamente diversa rispetto al passato, ma certamente non impossibile. E’ bene sciogliere subito un dubbio. Per favorire un processo di ripresa dell’industrializzazione del Mezzogiorno, così come insegna l’esperienza internazionale, sono necessarie tanto azioni di lunga lena di miglioramento dei contesti (politiche orizzontali e infrastrutturali), quanto interventi direttamente volti a favorire i processi di trasformazione strutturale delle imprese (politiche industriali). E’ certamente illusorio provare a forzare l’industrializzazione con forti incentivazioni senza che si creino nei territori condizioni orizzontali, contestuali, favorevoli all’impresa: è questo un insegnamento ormai da tempo acquisito della storia economica italiana. Ma può essere altrettanto illusorio confidare negli effetti automatici di condizioni di contesto in miglioramento, senza politiche dirette che favoriscano le trasformazioni strutturali: i processi di cambiamento industriale rischiano di essere lentissimi – come mostra l’esperienza del periodo più recente; di non avviarsi mai. E’ diffusa l’opinione che per rendere competitivo il paese, ed in particolare le sue imprese, servano esclusivamente misure di semplificazione e promozione della concorrenza. Una differente regolamentazione della vita economica del paese, in grado di fornire un quadro meno complesso e ricco di incognite di quello attuale, l’eliminazione di barriere concorrenziali sui mercati dei beni, un deciso incremento di efficienza delle pubbliche amministrazione, un forte miglioramento del servizio giustizia sono tutti obiettivi condivisibili. Ma certamente si tratta di fattori da soli inadeguati, a meno di non nutrire una fiducia aprioristica, ideologica, nel funzionamento salvifico dei mercati, a garantire processi di irrobustimento dell’apparato produttivo. Semplicemente, serve contemporaneamente operare tanto sulle condizioni dell’ambiente “esterno alla fabbrica” in cui le imprese operano, quanto sulle condizioni “interne alla fabbrica”. Da dove partire con le politiche industriali? Il Sud soffre in misura accentuata degli stessi problemi dell’industria italiana. Con il nuovo secolo, è stata preso fra due fuochi. Da un lato, le mutate condizioni strutturali in cui le imprese si trovano ad operare: l’emergere dei nuovi produttori; la riconfigurazione in Europa dell’industria tedesca; il cambio forte dell’euro; l’incompleta adozione delle nuove, pervasive tecnologie dell’informazione e della comunicazione, da cui le imprese italiane riescono a trarne solo in misura molto parziale i grandi vantaggi di produttività possibili. Conseguenza di questo è stato un rilevante ridimensionamento della produzione italiana nel quadro internazionale. Dall’altro la lunga e profonda depressione della domanda interna indotta dalle politiche dell’austerità. Negli ultimi anni, il potenziale manifatturiero italiano si è fortemente ridotto: stime del CSC mostrano che nel 2013 è tornato a livelli pari a quelli del 1990. Ciò che poi caratterizza le imprese industriali italiane negli ultimi anni, è un forte rallentamento del processo di accumulazione; che permane, date principalmente le incertezze sulla ripresa della domanda; la forte caduta degli investimenti industriali crea incertezza non solo sulla dimensione della capacità produttiva ma anche sulla sua qualità. Vi è stata una caduta della redditività: il rapporto fra MOL e valore aggiunto, è in riduzione dall’inizio del secolo, e si colloca nel periodo più recente su valori più bassi rispetto agli altri principali paesi europei. Le difficoltà competitive emerse nel nuovo secolo sono collegate a ben note caratteristiche strutturali delle imprese italiane. Le imprese manifatturiere italiane sono più piccole rispetto alla media europea. E’ molto più alta in Italia la quota di imprese a controllo e gestione familiare, con minori presenza di manager esterni alla famiglia. E’ basso il livello di istruzione degli occupati (anche dei manager) e il peso sul totale delle occupazioni “qualificate”. Gli investimenti “cognitivi” delle imprese italiane sono ridotti: non si tratta solo degli investimenti in ricerca e sviluppo, ma anche in altri elementi immateriali, quali il software, il patrimonio di marca, il capitale organizzativo. Condizioni che, fra le imprese industriali del Sud, si ritrovano tutte in misura più accentuata. Vi è però un dato fondamentale di cui tenere conto. Negli ultimi anni è molto cresciuta l’eterogeneità fra le imprese italiane. Queste eterogeneità non dipende tanto dalla collocazione settoriale dell’impresa (cioè dal tipo di produzione), ma dalla collocazione competitiva dell’impresa nel proprio settore di appartenenza (cioè dallo specifico prodotto e/o dalla sua efficienza produttiva). I dati medi sono il frutto di situazioni individuali delle imprese crescentemente differenti. Anche nella grande crisi vi sono imprese vincenti, anche nel Mezzogiorno. Gli esiti individuali sono positivamente correlati alla dimensione, ai mercati di sbocco, all’attività innovativa. La Banca d’Italia mostra che le imprese che esportano più di un terzo del fatturato hanno avuto nel 2010-12 una crescita del fatturato del 2,4% superiore ad imprese simili (a parità di settore, dimensione, localizzazione) non esportatrici; che quelle che hanno investito in R&S hanno avuto una crescita superiore dell’1,9% e che quelle che esportano e investono hanno avuto una crescita del fatturato superiore del 4,1%, sempre a parità di settore, dimensione, localizzazione. La Banca d’Italia lega infine le performance più positive ad una maggiore dimensione aziendale, con sistematici divari di produttività fra le imprese a seconda della loro dimensione.
Nel quadro complessivo di difficoltà per l’intero Paese, ed in particolare per la sua industria, i contraccolpi per l’industria del Mezzogiorno sono stati ancora più forti, in particolare nella seconda fase della crisi, dal 2011 in poi: proprio a causa della più contenuta dimensione aziendale, della minore attività innovativa, del maggior orientamento delle produzioni localizzate in questa macro-area verso la componente interna della domanda. Fortissima, e molto più intensa che nel Centro Nord, è stata la caduta del valore aggiunto industriale, specie nel 2013-14. Il valore aggiunto manifatturiero a prezzi correnti del Mezzogiorno è nel 2013 inferiore del 16% rispetto al 2000; del 25% rispetto al 2008. Segnali ancor più negativi che nella media del paese provengono dal processo di accumulazione industriale: tra il 2007 e il 2013 gli investimenti nell’industria in senso stretto nel Mezzogiorno si sono ridotti del 53%, passando da 17 a 8 miliardi all’anno. Il tasso di accumulazione industriale (investimenti nell’industria rispetto al PIL) che fino al 2007 era stato nel Sud paragonabile al Centro Nord, si è poi bruscamente, fortemente, ridotto. La Svimez stima una caduta della capacità produttiva del 30% rispetto all’inizio del secolo; il peso della manifattura sul valore aggiunto totale è sceso all’8%. Il numero delle imprese industriali meridionali si è ridotto, ma non vi è stato un processo di concentrazione della produzione e quindi di aumento delle dimensioni medie. I produttori manifatturieri meridionali sono meno numerosi, e conservano le proprie dimensioni. Nel 2012 nel Mezzogiorno vi sono 5293 piccole e medie imprese industriali: erano 6403 nel 2007. Nel 2013 nel Mezzogiorno vi sono soltanto 245 medie imprese industriali (Mediobanca); il loro numero è diminuito di oltre il 35% rispetto al 2007. Si è significativamente ridotta la presenza industriale nel Mezzogiorno di imprese del Centro Nord. Vi sono nel Mezzogiorno segni di vitalità imprenditoriali, come segnalati ad esempio dalle iscrizioni al registro delle nuove imprese innovative, ma la natalità non appare più intensa che nel resto del paese. Il fatturato delle imprese industriali del Sud, dopo il crollo del 2009, è tornato a diminuire a valori correnti nel 2012-13. Anche per la crisi del mercato interno, è però cresciuta la quota media di fatturato esportato, come effetto sia dell’incremento dell’export degli esportatori sia della scomparsa di imprese non esportatrici. Stando ai dati Banca d’Italia-Invind si passa dal 22,5% del 2011, al 29,7% del 2014: un dato superiore a quello medio della circoscrizione del Centro; anche se significativamente inferiore rispetto alla imprese del Nord. Ciò conferma che il limitato rapporto fra export di beni e PIL del Mezzogiorno dipende sì da una minore propensione all’export, ma soprattutto dalla contenuta dimensione della base industriale. Il tessuto manifatturiero meridionale appare quindi oggi decisamente più piccolo di prima della crisi. Della “distruzione creatrice” che accompagna le grandi crisi, si è sinora vista soprattutto la prima fase. Certamente le imprese meridionali sopravvissute hanno mostrato ottime capacità di tenuta in una congiuntura assai difficile e questo le ha rafforzate. Molte però hanno avuto una forte contrazione delle marginalità e una caduta degli investimenti (in un quadro di rilevante capacità inutilizzata): condizioni che non rendono semplice una ripresa dell’accumulazione e dei processi di crescita, specie se non ci sarà una forte ripresa della domanda, al momento non prevedibile. Come nel resto del paese vi è stata una forte differenza nelle performance fra le imprese. Molto diversa è stata in particolare la performance, e assai diverse sono oggi le prospettive, di alcuni dei maggiori impianti produttivi esistenti nel Mezzogiorno, basti pensare alla Fiat di Melfi e all’Ilva di Taranto. Certamente il tessuto produttivo si è sgranato, e contiene molte imprese eccellenti, che anche durante la crisi hanno ottenuto buoni risultati. Il loro numero complessivo, tuttavia, sembra ancora limitato. Difficilmente l’attuale quadro internazionale, il contesto macroeconomico, le condizioni strutturali delle imprese oggi operanti nell’industria meridionale potranno produrre autonomamente fenomeni di sviluppo, tantomeno di sviluppo accelerato, della base produttiva. Se si vuole una forte ripresa dell’industrializzazione del Sud, come uno degli obiettivi più importanti di un percorso di rilancio dell’intero paese, è necessaria una strategia esplicita, di lungo periodo. Come già accennato, le condizioni politiche e culturali che possono determinare queste scelte sono ben lungi dall’essere presenti oggi in Italia. Nell’intero paese prevalgono nettamente ottiche e prospettive di breve periodo rispetto a disegni più ampi di medio e lungo termine, per i quali sembrano mancare in primo luogo le condizioni di fiducia, di determinazione, di ambizione. In un’area come quella meridionale, con le sue difficoltà e le sue potenzialità, un’ottica di breve periodo è incompatibile con qualsiasi serio disegno. Allo stesso tempo prevale nettamente la difesa di interessi individuali, di gruppo, di territorio, rispetto alla promozione di grandi interessi collettivi, di fondamentali beni e servizi comuni. Politiche industriali Un rilancio dell’industrializzazione nel Mezzogiorno richiede un cammino lungo e intelligente, di rafforzamento dell’esistente e di ampliamento della base produttiva, che può essere paragonabile per intensità – anche se certamente assai diverso nelle sue linee portanti – a quanto realizzato negli anni 50 e 60 del secolo scorso. Il quadro attuale delle politiche industriali italiane appare assai inadeguato non solo per questi ambiziosi obiettivi, ma per lo stesso rilancio dell’apparato produttivo nelle aree più forti del paese; per determinare aumenti di produttività e quindi di competitività internazionale, dopo lunghi anni di stagnazione. L’Italia è oggi fra i paesi europei che attua le più deboli politiche industriali, intese nel senso restrittivo, ma utile alla comparazione internazionale su dati omogenei, di erogazioni di incentivi alle imprese. Certamente le più deboli fra i maggiori paesi; anche rispetto al Regno Unito che ha maturato da tempo un’impostazione fortemente liberista. La riduzione degli interventi è stata particolarmente forte dalla metà dello scorso decennio, proprio quando il sistema produttivo esprimeva le maggiori esigenze di intervento. Appare davvero sorprendente che rapporti di dubbia attendibilità e ripetute campagne giornalistiche abbiano sostenuto con forza, e continuino a sostenere, il contrario. Particolarmente basso in Italia, in comparazione internazionale, è il sostegno ai processi di ricerca, sviluppo, ed in genere di innovazione delle imprese. Circostanza che purtroppo si affianca alla forte riduzione degli ultimi anni – molto più intensa che negli altri paesi europei – degli investimenti nelle attività di formazione e ricerca universitarie, ed ai bassi livelli di spesa nella ricerca pubblica (che colloca l’Italia molto in basso nelle classifiche dell’Ocse). Assai preoccupante – anche per i suoi riflessi sulla competitività delle imprese – è la circostanza che dal 2008 vi sia stato un fortissimo taglio delle risorse disponibili per il sistema universitario del Centro Sud, che ne sta determinando un rilevante ridimensionamento e ne sta mettendo sempre più a rischio il fondamentale ruolo nei processi di sviluppo. Resta contenuta la spesa privata in R&S, anche per la scomparsa o la “fuga” verso attività protette di molte delle grandi imprese italiane. La “ritirata dalle politiche industriali” degli ultimi anni è accompagnata da diversi ulteriori elementi. Il primo e più importante è che la riduzione degli interventi è stata notevolmente più forte nelle regioni del Mezzogiorno, dove si è registrato un crollo verticale della spesa. Sono praticamente scomparsi in Italia interventi ordinari, permanenti, finalizzati allo sviluppo industriale delle regioni più deboli. In secondo luogo gli strumenti nazionali sono stati oggetto di provvedimenti di razionalizzazione che, pur essendo opportuni per ridurre la confusione normativa, hanno determinato una situazione in cui la “cassetta degli attrezzi” è divenuta decisamente scarna. Nella strumentazione sopravvissuta, o determinata da qualche provvedimento normativo recente, si possono segnalare un’interessante insieme di normative in favore delle nuove imprese; il credito d’imposta per le attività di ricerca, per quanto assai più blando e incerto di quello operante in tutti gli altri paesi avanzati; l’introduzione di un importante strumento per il finanziamento delle imprese come i “mini-bond”, assieme all’ACE, per favorire fiscalmente un maggiore capitale di rischio rispetto all’indebitamento; un opportuno tentativo di rilancio delle iniziative di promozione internazionale del Made in Italy e di attrazione di investimenti. Nessuno di questi prevede graduazioni territoriali di intervento. La maggior parte dell’attenzione, e delle risorse, sono state indirizzate negli ultimi anni verso i problemi del credito; in particolare verso il Fondi di Garanzia per le PMI. Questo è senz’altro comprensibile, e opportuno, nei momenti più acuti della crisi, per evitare che l’affievolirsi dei finanziamenti bancari potesse determinare difficoltà ancora maggiori per le imprese, e accrescerne la mortalità. Si tratta però di uno strumento, per propria natura, assai lontano dagli interventi necessari per indurre mutamenti strutturali nel sistema delle imprese. In generale si assiste ad una tendenza a privilegiare strumenti di intervento di natura finanziaria, con un’azione pubblica di garanzia/riduzione dei costi. La tendenza è anche coerente con lo sviluppo nel quadro europeo di interventi della BEI, o delle nuove iniziative nel quadro del cosiddetto Piano Juncker, volte ad accrescere i finanziamenti disponibili anche per le imprese. Si tratta di strumenti che, anche per la propria natura rotativa (i prestiti devo essere per definizione restituiti) ben si attagliano a tempi di risorse pubbliche scarse. Tutto ciò detto, però, fare affidamento esclusivamente su una strumentazione di questa natura presenta evidenti limiti. Essa accompagna finanziariamente i processi evolutivi delle imprese, ma non ne sollecita l’accelerazione, la diversificazione; non modifica le convenienze di fondo; non stimola l’innovazione; non induce a investire in territori più difficili. Anzi, strumenti di prevalente natura finanziaria tendono a concentrare i propri interventi nelle aree più forti, dove i ritorni sono mediamente maggiori. I più importanti processi di crescita delle imprese sono caratterizzati da alti rischi (e grandi opportunità) che possono essere affrontati anche grazie ad interventi pubblici di ben altra natura e intensità. Sono invece quasi scomparsi dalla strumentazione nazionale, interventi a fondo perduto. Un’altra grande tendenza – nel quadro della forte, complessiva, contrazione delle politiche industriali italiane – è un aumento del peso relativo delle Regioni, rispetto alle Amministrazioni Centrali, nella definizione degli interventi e nell’erogazione delle risorse. Questo fenomeno è stato netto fino al 2011-12; successivamente anche le Regioni, a causa dei provvedimenti restrittivi di finanza pubblica che le hanno duramente colpite, hanno ridotto la portata dei propri interventi. Ciò si accompagna alla assai più forte riduzione delle politiche del Mezzogiorno, dove il peso degli interventi nazionali era maggiore. Ancora oggi la rilevanza delle erogazioni regionali rispetto a quelle nazionali, è minore nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord; è differenziata fra le regioni del Sud: piuttosto bassa in Calabria, nelle Isole e soprattutto in Campania. Infine, assai calanti le risorse nazionali, cresce il peso di quelle rivenienti dalla programmazione dei fondi strutturali europei, tanto nel Mezzogiorno quanto nel CentroNord, e del relativo cofinanziamento regionale e nazionale. Essi si configurano sempre più, anche in questo ambito, come meramente sostitutivi di mancati interventi ordinari. Sia nella programmazione 2007-13 quanto in quella 2014-20, appena avviata, sono significative le azioni a favore della ricerca e dell’innovazione, e di sostegno alla competitività delle imprese. I fondi strutturali, investiti in Italia da una vera e propria campagna di denigrazione, sono invece la unica, importante politica comunitaria di sviluppo, e intervengono tanto nel potenziamento delle infrastrutture e dei servizi collettivi, quanto a sostegno delle imprese. Bisognerebbe dedicare al tema un’attenzione molto maggiore. Il quadro del loro utilizzo è articolato. Nel Centro Nord tutto è affidato alle programmazioni regionali. Nel Sud, oltre ai programmi regionali, vi sono programmi nazionali, che hanno riguardato nel 2007-13 le 9 quattro regioni “Convergenza” (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia), e che riguardano nel 2014-20 le otto regioni del Mezzogiorno storico. Insomma, per cercare le politiche industriali italiane negli anni più recenti, occorre guardare più ai fondi strutturali europei che ai bilanci dei Ministeri; più ai capoluoghi di regione che a Roma. Ricostruendo una visione d’insieme, emergono tre fondamentali problemi delle politiche industriali italiane, così come sono andate delineandosi negli ultimi anni: la mancanza di un quadro di riferimento unitario di lungo periodo; lo spezzettamento delle competenze e la mancanza di occasioni di raccordo tanto verticali quanto orizzontali; la frammentazione e la discontinuità di molti interventi, con una scarsa capacità di valutare e di apprendere dalle esperienze. Andiamo con ordine. In primo luogo la mancanza di un quadro di riferimento che, come si vedrà più avanti, è elemento centrale in tutti gli altri paesi. Non esiste un documento strategico italiano di visione. E’ assai dubbio che il Piano Nazionale della Ricerca sia rilevante, ed abbia influenza e raccordo con le decisioni che vengono prese. Alle politiche industriali italiane manca innanzitutto una testa pensante. Per la programmazione 2014-20 dei fondi strutturali, tutte le regioni hanno predisposto le proprie, “Strategie di Specializzazione Intelligente”. Esse stanno confluendo/dovrebbero confluire in un documento nazionale, che però arriva quando le decisioni regionali – che riguardano la parte prevalente del finanziamento – sono già prese. La stessa metodologia comunitarie che porta alla redazione di queste “Strategie” solleva non pochi dubbi, chiedendo alle regioni di cimentarsi in esercizi di foresight davvero difficili, specie in questi tempi; e specie a scala regionale senza un quadro di riferimento nazionale. L’esito ne sono scelte che immancabilmente portano alla moltiplicazione delle aree di intervento e soprattutto ad evidenti sovrapposizioni e duplicazioni fra territori. Questo conduce alla secondo problema chiave. L’applicazione dei nuovi principi dell’articolo 117 della Costituzione, così come riformato nel 2001, ha portato in questo ambito ai risultati più parossistici. Non è affatto chiaro chi fa che cosa, fra Stato e Regioni, e su quali principi. Come si vede da un’analisi anche superficiale, infatti, dei Programmi di intervento nazionali e regionali (per il Mezzogiorno) vi sono notevoli aree di sovrapposizione. Si fa poco, ma lo si fa in maniera confusa. Si è venuta da tempo riducendo la capacità del governo e dell’amministrazione nazionale, di esercitare un ruolo di raccordo e di coordinamento delle diverse iniziative, per accrescerne l’efficacia complessiva, favorire la specializzazione degli interventi, evitare duplicazioni. Si predica un forte ritorno ad un centro che decide; ma la realtà appare ancora molto diversa. E comunque, come si dirà più avanti, una centralizzazione verticale non è certo la caratteristica delle migliori esperienze di politica industriale.Le tante iniziative regionale hanno una motivazione forte: il drastico contrarsi degli interventi nazionali ha prodotto pericolosi vuoti. Le regioni si sono dovute sobbarcare un ruolo di supplenza, per proprio natura incongruo, a causa del venire meno del ruolo delle politiche centrali. Circostanza che le ha spinte ancor più ad espandere a 360 gradi i propri interventi. Ma ciò non risolve i problemi che sono stati evidenziati. Scarsissime sono le relazioni orizzontali, fra regioni: non solo manca un confronto su contenuti e priorità, ma mancano anche forme di collaborazione tecnica concreta, fornitura di informazioni, scambi di esperienze, comparazioni e valutazioni. Ne discende un quadro estremamente complesso: nel 2012 il MISE stimava attivi 800 interventi a scala regionale. Sui cui aspetti più importanti l’informazione è assai carente.Dopo l’ubriacatura federalista domina ormai un’opinione opposta per cui tutte le iniziative regionali sono pessime per definizione. Dai pochi dati disponibili, in mancanza di analisi e valutazioni più complete, il quadro sembra più articolato. Non sono mancate ad esempio negli ultimi anni iniziative interessanti per le politiche dell’innovazione a scala regionale: esempi ne sono le politiche per l’inserimento di dottori di ricerca nelle aziende, dei voucher per l’acquisto di servizi innovativi, di fondi di seed capital e strumenti finanziari, di stimolo alla collaborazione imprese-università. Hanno riguardato diverse regioni del Centro Nord, ma vi sono esperienze interessanti anche in Campania e in Puglia. Tuttavia, resta la circostanza che per scala (si pensi alle regioni più piccole), capacità e competenze delle amministrazioni, e per le dinamiche politiche e di inseguimento del consenso che portano alla parcellizzazione delle risorse e al moltiplicarsi dei bandi, si è prodotto un quadro estremamente complesso. E caratterizzato in non pochi casi da frammentazione e irregolarità nel tempo delle misure: le caratteristiche peggiori che una politica industriale può avere. Infine, nel quadro italiano contemporaneo spicca il ruolo centrale ormai assunto dalla Cassa Depositi e Prestiti: attraverso i suoi fondi per il credito alle imprese, gli interventi sul fronte dell’internazionalizzazione (che vengono dal controllo della SACE e della SIMEST), le iniziative del Fondo Italiano di Investimento e del Fondo Strategico; e i possibili ulteriori sviluppi che si potranno determinare con il nuovo “veicolo” per le società in crisi i cui contorni si stanno ancora definendo. Sono sviluppi importanti e interessanti. In primo luogo perché in molti altri paesi, anche europei, si sta rafforzando il ruolo di “banche di sviluppo”, in grado di coniugare il controllo di un volume elevato di risorse, grandi competenze tecniche, ed una efficienza operativa che può essere superiore a quella delle normali amministrazioni. Dopo la grande crisi tornano decisamente ad emergere in molti paesi avanzati istituzioni “speciali”, organizzazioni complesse con aspetti sia pubblicistici sia privatistici. Le esperienze sono molto diversificate, e in molti casi in evoluzione: meriterebbero un quadro comparativo approfondito, quantomeno con i principali paesi europei. Questi soggetti sono sempre strumenti per l’attuazione di strategie nazionali di sviluppo. Ad esse i governi affidano grandi obiettivi di medio e lungo periodo, garantendo per molti versi autonomia gestionale, ma avendo sempre ben chiari gli obiettivi ultimi cui si vuole arrivare. Da questo punto di vista la situazione italiana desta notevoli perplessità: le nuove competenze acquisite dalla galassia Cassa Depositi e Prestiti sono frutto di un insieme di decisioni politiche disorganiche e spesso scollegate, come risposte ad esigenze tanto diverse quanto la difesa dell’”italianità” dell’industria (motivo per cui nacque il Fondo Strategico) o una diversa strutturazione del debito pubblico (dietro la cessione di asset pubblici alla CDP). Manca l’individuazione esplicita, da parte del decisore politico, di una o più mission chiare. Rispetto alle quali giudicare anche le singole operazioni; rispetto alle quali definire i criteri di scelta e di priorità da adoperare nei singoli casi. La galassia CDP ha principalmente obiettivi di massima redditività del capitale investito (anche per remunerare i soci “privati” come le Fondazioni) o deve contemperare una gestione prudenziale e comunque redditiva con altre esigenze di interesse pubblico? Quali? Come? Se lo scopo è garantire solo i ritorni per gli investitori, che senso ha la circostanza che il principale azionista della Cassa sia il Ministero dell’Economia, e azionisti del FII siano ABI, Confindustria e lo stesso Ministero, e che azionista del FSI sia la Banca d’Italia? Quali sono gli obiettivi a cui questi soggetti mirano attraverso i loro investimenti? Se le Fondazioni, socie di minoranza, hanno anche l’obiettivo di rafforzare i propri territori di elezione, come contemperare la loro naturale esigenza con la circostanza che esse sono radicate pressoché esclusivamente nel Centro Nord; e invece il risparmio postale con cui si alimentano molte operazioni proviene dall’intero paese? Queste domande di fondo non trovano risposta compiuta; ad esempio scorrendo le partecipazioni acquisite dal FSI emerge certamente l’interesse delle singole operazioni: ma sfugge il loro perché di fondo. E l’importanza di queste domande emerge ancor più chiara allorché si vede che ben poco delle attività più recenti e pregiate della CDP riguarda il Mezzogiorno. Evidentemente è più semplice trovare occasioni di investimento laddove l’economia è più forte e la platea di potenziali soggetti da coinvolgere più ampia. Questo porta ad interrogarsi su una questione di fondo: il rapporto tra i temi dello sviluppo territoriale e la strutturazione delle banche di sviluppo, l’utilizzo di capitali pubblici e privati in grandi operazioni di investimento, la stessa impostazione di fondo del Piano Juncker (limitate risorse pubbliche come leva di possibili investimenti privati). Se non vi è un indirizzo politico chiaro, queste iniziative possono finire paradossalmente con l’ampliare i divari di sviluppo e rendere più difficile l’industrializzazione del Mezzogiorno. Se nel dopoguerra le grandi istituzioni speciali avevano un esplicito ruolo di riequilibrio territoriale, oggi rischiano di averne uno ben diverso. Il tema è ineludibile: se e quanto, in questa congiuntura storica, possa essere immaginato di affidare una o più missioni, territorialmente mirate, ad un’istituzione – esistente o nuova – nell’ambito della galassia CDP. Le esperienze internazionali Da una rassegna anche rapida delle politiche industriali nei principali paesi europei emergono alcuni temi di fondo, molto interessanti per le implicazioni che possono avere in Italia. Ormai è evidente: in tutti i paesi europei (anche in quelli di impostazione più liberista come il Regno Unito) le politiche industriali hanno riacquistato un ruolo centrale, sono in alto nell’agenda delle politiche pubbliche e dell’interesse dei governi. La crescita dirompente dei paesi emergenti prima, e la grande crisi finanziaria e dell’austerità poi hanno reso evidente a tutti i paesi avanzati che la difesa e il rilancio di una manifattura di qualità sono un obiettivo imprescindibile. Che si incrocia con le strategie di ricerca e di innovazione di lungo termine a livello nazionale, e con la necessità di disporre di un sistema industriale vibrante che sia in grado di contribuire alle grandi sfide della società contemporanea nei paesi avanzati: dall’economia green alle tematiche della salute, dalle questioni dei trasporti e della mobilità a quelle dell’economia digitale e dei servizi per i cittadini. Per questo motivo, tutti i paesi europei, grandi e piccoli, a cominciare dalla Germania, si sono date visoni di lungo periodo; grandi obiettivi strategici nazionali da raggiungere; scenari di priorità entro i quali sollecitare lo sviluppo delle imprese. In tutti i casi i governi, anche di colore politico diverso, hanno compiuto scelte politiche discrezionali, individuato settori e aree tecnologiche prioritarie. La stessa Commissione Europea ha mutato notevolmente il proprio approccio, passando dalla sola tutela della concorrenza all’individuazione di aree prioritarie di sviluppo per la manifattura europea, pur in mancanza di strumenti a livello comunitario che non siano da un lato i fondi strutturali e dall’altro Horizon 2020. Ben poco di questo sembra avvenire in Italia: paese che sembra caratterizzato da un livello di dibattito di almeno un ventennio più arretrato rispetto agli altri. E’ chiaro a tutti che i governi non sono onnipotenti, che le economie di mercato non possono essere pianificate, che le risorse pubbliche disponibili non sono enormi. In nessuno dei documenti dei nostri grandi partner europei, d’altronde, sono presenti nostalgie per processi e strumenti dell’immediato secondo dopoguerra. Ma in Europa si sta fortunatamente affermando l’idea che la semplice garanzia del funzionamento dei mercati e gli interventi sui fattori orizzontali, di contesto, non sono sufficienti a garantire la prosperità di lungo termine. Avere una visione del proprio futuro industriale è fondamentale. Quale è la visione del futuro industriale dell’Italia e del Mezzogiorno? Non solo non vi è risposta. Ma in Italia sembra che nessuno si ponga nemmeno la domanda. Il secondo elemento che contraddistingue le esperienze europee contemporanee, e che può fornire indicazioni assai utili per l’Italia, è un corretto bilanciamento e una forte cooperazione fra i livelli centrali e decentrati di governo. Da questo punto di vista la forza dell’industria tedesca è anche frutto di un sistema di governance rodato da decenni, nel quale si contemperano le grandi indicazioni e scelte nazionali e l’azione coordinata dei governi locali. Un modello che sembra funzionare davvero bene: bilanciando il contatto diretto sul territorio, con le imprese, degli attori locali, l’autonomia e la diversificazione delle concrete scelte dei Lander, con meccanismi di coordinamento e collaborazione. Il soggetto più importante nell’attuale quadro degli attori delle politiche industriali in Europa, gli Istituti Fraunhofer, ne rappresentano un esempio evidente: né localismo autarchico né centralismo dirigista. Ciò che è interessante è che anche paesi di tradizione diversa hanno fatto notevoli progressi in questo senso. Il programma francese dei Poles de Competitivitè rappresenta una evoluzione importante in una tradizione fortemente dirigista: e si sta traducendo nella fioritura, in tutto il paese, di reti di collaborazione assai diversificate ma coordinate da un’unica politica. L’avvio del programma dei Catapult Centres nel Regno Unito si muove in una direzione simile. E’ evidente come l’Italia, assai più simile alla storia e alla cultura del modello di governo multilivello tedesco di quanto non siano Francia e Regno Unito, potrebbe giovarsi di queste esperienze. Ciò che rileva in tutti questi casi è l’obiettivo di promuovere lo sviluppo in tutte le aree del territorio nazionale, anche attraverso l’intervento di istituzioni nazionali; di puntare al rafforzamento del sistema paese e non solo di alcune delle sue componenti territoriali. A confronto con le esperienze europee l’Italia – nella situazione che è stato descritta in precedenza – sembra essere in un quadro completamente diverso: esasperata autarchia regionale da un lato; debolezza, politica e amministrativa, del centro dall’altro. Il terzo elemento comune è certamente l’attenzione verso soggetti – basati sul territorio ma in una logica di coordinamento nazionale – che promuovano il coordinamento e la cooperazione fra le imprese e fra imprese, università e centri di ricerca soprattutto nelle attività a più alto contenuto innovativo e che svolgano una funzione di interfaccia per la diffusione delle tecnologie. L’Italia ha una delle sue forze storiche – anche in parti del Mezzogiorno – proprio nel radicamento locale di sistemi produttivi. Ma presenta un quadro di iniziative di politica industriale di grande confusione e probabilmente di efficacia molto limitata. Distretti e cluster tecnologici, parchi scientifici e laboratori pubblico-privato si affiancano e sovrappongono da anni. Ne è evidente l’utilità, proprio per le caratteristiche del nostro sistema produttivo che sono state ricordate; e in modo particolare nelle regioni più deboli, come fondamentali leve di sviluppo. E tuttavia l’attuazione sembra caratterizzata, oltre che dalla complessiva modestia degli investimenti, da una moltiplicazione, frammentazione e sovrapposizione di esperienze. In questi ambiti è normale che ci sia, territorio per territorio, una diversificazione di scelte e di esperienze, anche in relazione alle esigenze del tessuto produttivo e della stesse storia degli interventi. Le scelte degli attori locali sono decisive. Il punto non è avere un modello unico di distretto o di centro di diffusione tecnologica: la moltiplicazione delle esperienze può essere motivo di arricchimento. Un’impostazione gerarchica, dal centro, di soggetti e procedure, può essere controproducente. Ma nel quadro italiano sembrano mancare alcuni tasselli fondamentali delle esperienze internazionali di successo: il raggiungimento di una massa critica, frutto di un bilanciamento fra finanziamenti pubblici adeguati e continuativi nel tempo, nazionali, regionali e locali, e di una capacità crescente di finanziamento da parte delle imprese (graduata in base allo spessore dell’esistente, territorio per territorio); il raccordo e il coordinamento, in sede nazionale. Soprattutto, in Italia sembra mancare una continuativa capacità di valutazione dei processi e dei loro effetti, che possa portare ad imparare dall’esperienza e a migliorare continuativamente nel tempo. Non è facile: soggetti radicati territorialmente, che mirano a sviluppare interazioni, a promuovere investimenti congiunti e complementari, a determinare esternalità localizzate di varia natura hanno bisogno di una valutazione intelligente e attenta, capace di tenere in debito conto le molteplici difficoltà esistenti e i tempi necessari, a volte particolarmente lunghi. Occorre misura e attenzione.
E tuttavia, i diversi round di valutazione nell’ormai decennale politica dei Poles, così come il procedere graduale dell’estensione e del rafforzamento dei Catapult sono la migliore conferma che per ottenere risultati da politiche industriali così sofisticate, ma anche così importanti, non basta disegnare un bando e allocare finanziamenti perché tutto funzioni. Occorre una volontà politica costante nel tempo e una sofisticata capacità, necessariamente centrale, di accompagnamento, analisi, raccordo, valutazione. Infine, le esperienze straniere sugli strumenti delle politiche industriali mostrano come sia illusorio puntare esclusivamente su modalità automatiche: esse sono adatte per alcuni strumenti ed interventi; per altri, non si può prescindere da processi e capacità valutative. Ma al tempo stesso confermano come sia possibile semplificare notevolmente il quadro, migliorare le procedure, ricostruire la fiducia delle imprese nell’azione delle amministrazioni con modalità trasparenti, certezza dei tempi, valutazione sostanziale dei risultati e non solo formale della correttezza amministrativa. Una possibile agenda Non è tra gli obiettivi di questo scritto una sistematica e articolata proposta di una politica industriale per il rilancio del Mezzogiorno, nel quadro di una complessiva impostazione nazionale. Tuttavia gran parte dei problemi e delle opportunità, e quindi gli elementi di una possibile agenda, emergono dall’analisi che è stata compiuta. Senza una forte manifattura competitiva il Mezzogiorno, e di conseguenza l’intero paese, avranno gravi difficoltà a riemergere dalla peggiore depressione economica della storia unitaria. Disegnare una coerente e moderna politica industriale pare un passaggio ineludibile: riproponendo così la centralità di un rilancio industriale del paese; la necessità di una visione di lungo termine, per l’Italia e per il Mezzogiorno, anche delle priorità tecnologiche; un drastico ridisegno della governance verticale e l’introduzione di meccanismi di cooperazione a scala sovraregionale; un’ulteriore semplificazione del quadro. La necessità di una cassetta degli attrezzi ampia ma chiara, semplice e costante nel tempo; che associ bene livelli, strumenti e obiettivi sfrondando le duplicazioni. Ciò che serve è sufficientemente chiaro: un immediato rafforzamento del sistema produttivo esistente nel Mezzogiorno attraverso un sensibile slancio al processo di accumulazione, e con un’azione di lunga lena sulle imprese per favorirne una trasformazione strutturale virtuosa, creando le possibilità per un aumento della dimensione aziendale, per l’ingresso di nuovo capitale umano qualificato, per il potenziamento dei processi innovativi, per lo sviluppo sui mercati internazionali; il sostegno alla natalità di nuova impresa; l’attrazione di nuove imprese dall’esterno; il rafforzamento di soggetti collettivi specializzati, radicati nei territori ma coordinati a scala nazionale, per favorire le interazioni fra le imprese e con le università e i centri di ricerca e per un processo di diffusione ampia di saperi e tecnologie; nuovi soggetti in grado di superare i fallimenti di mercato e attuare iniziative di sistema. E’ evidente che questo processo è condizionato dal quadro generale macroeconomico e di politica economica del paese. E’ reso più difficile dal perdurare del calo degli investimenti pubblici, ormai ai minimi storici in particolare nel Mezzogiorno, che, oltre a comportare un sensibile calo della domanda aggregata (con il conseguente impatto sulle imprese di costruzioni e su tutta la filiera manifatturiera dei loro fornitori), può determinare un peggioramento delle già difficili condizioni di contesto in cui operano le imprese del Sud. E’ reso più difficile dal perdurare della stagnazione dei consumi privati, che priva le imprese del primo e più immediato sbocco di mercato per i propri prodotti. Ancora, da politiche di ridisegno della spesa pubblica che mirano esclusivamente ad obiettivi di cassa e non affrontano il ruolo che una domanda pubblica più efficiente e di qualità può svolgere anche nello stimolare i processi innovativi delle imprese: un diverso procurement, stimolando la capacità delle imprese, può determinare sia risparmi che aumento di qualità dei servizi. Infine da una modestissima attenzione, e fiducia, della politica nell’industrializzazione del Sud. Avendo ben presente i vincoli e le compatibilità che scaturiscono dal complessivo modello di sviluppo del paese, vi è però una importante occasione per costruire un quadro di respiro di politiche mirate in modo particolare all’industrializzazione del Mezzogiorno. Può essere rappresentato dalla programmazione contemporanea dei fondi strutturali e del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC) per il 2014-20. Per quanto riguarda i primi, essendo ormai definiti i programmi operativi regionali e nazionali – senza che si sia messo mano alle evidenti criticità già emerse nel 2007-13 – appare necessario un forte raccordo politico e attuativo, verticale e orizzontale: un’iniziativa che miri da un lato a specializzare e raccordare gli interventi nazionali del PON Competitività con quelli dei programmi operativi regionali e dall’altro a coordinare e raccordare i diversi interventi regionali. Per quanto riguarda il FSC – la cui situazione è caratterizzata da forte opacità ed incertezza – una parte della sua programmazione può riguardare interventi di politica industriale, che si raccordino con quelli dei fondi europei. Si potrebbe così disporre di un quadro di riferimento pluriennale, e di una corrispondente dotazione finanziaria. In questo quadro si possono inserire interventi sia per rafforzare il tessuto industriale esistente, sia per allargarne, sensibilmente, i confini. Sul fronte delle imprese esistenti si tratta principalmente di meglio definire, completare e soprattutto attuare con semplicità e perseveranza nel tempo un insieme di misure di cui, in misura rilevante, si è già detto, e che sono già in parte presenti nella strumentazione esistente. Si può provare a raggrupparle in alcuni grandi temi. Per il rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese (e per assicurarne le risorse per riprendere processi di investimento e crescita) paiono opportuni interventi di prosecuzione e di rafforzamento del sistema delle garanzie sull’indebitamento, così come strumenti per facilitare l’acquisizione di capitali di rischio, o comunque non di indebitamento a breve: da incentivi per la certificazione dei bilanci e per l’acquisizione di un rating, al potenziamento dello strumento dei mini-bond, al miglioramento, nel quadro normativo nazionale, del trattamento fiscale per il capitale proprio, ad esempio con l’ACE. Possono essere anche immaginate modalità più ambiziose di raccolta presso il grande pubblico di capitali, anche in forma obbligazionaria, con opportune forme di garanzia, specificamente indirizzate alle imprese industriali del Mezzogiorno; così come la rinascita di soggetti orientati al finanziamento industriale di medio-lungo termine, sempre con specifico riferimento al Sud. Anche per il rafforzamento delle capacità innovative può essere immaginata una filiera di strumenti, di volta in volta adatti alle diverse condizioni delle imprese. Essi possono andare dalle forme più semplici di voucher a fondo perduto per l’acquisto di primi servizi per l’innovazione, per le imprese di minore dimensione; a borse o dottorati di ricerca che possano portare giovani ricercatori a collaborare a specifici progetti aziendali (anche con incentivi per la loro successiva assunzione a tempo indeterminato); a progetti collaborativi di ricerca applicata, di piccola e media dimensione, fra imprese, università e centri di ricerca sulla base di call continuative. E anche in questo caso –nel quadro di una auspicabile iniziativa nazionale – possono essere immaginate iniziative più ambiziose, volte a sostenere più articolati progetti di ricerca e innovazione di reti di imprese o cluster di imprese e istituzioni di ricerca, in ambiti coerenti con le grandi priorità europee di ricerca; anche con forme di collegamento e di rafforzamento della partecipazione delle imprese ai bandi del programma comunitario Horizon 2020. Possono essere proseguite e intensificate le azioni per l’internazionalizzazione, a cominciare da una opportuna verifica dei risultati raggiunti dai programmi già in corso in sede ICE. Anche in questo caso, un chiaro obiettivo di aumento del valore delle esportazioni industriali o agroindustriali, può essere raggiunto attraverso differenti, specifici strumenti tecnici, che possono andare dai voucher a fondo perduto per primi servizi per l’internazionalizzazione (con particolare riferimento alle imprese non esportatrici) all’organizzazione di missioni di grandi acquirenti internazionali.
Infine, appare probabilmente opportuno, proprio per le preoccupanti dinamiche recenti che sono state illustrate, un credito d’imposta automatico per nuovi investimenti nel Mezzogiorno, con un limite temporale di breve-medio periodo; strumento che, seppur costoso e relativamente efficace nello stimolare processi strutturali di rafforzamento delle imprese, può facilitare l’indispensabile ripresa del processo di accumulazione. Ma, per i motivi che sono stati ampiamente illustrati, il rilancio dell’attuale tessuto produttivo non può che essere solo una parte di una politica per l’industrializzazione del Mezzogiorno. Appare indispensabile mirare ad un suo progressivo ampliamento. Un primo canale di potenziamento del tessuto industriale sono interventi per favorire la nascita e il primo sviluppo di nuove imprese. Come si è visto è questo un ambito nel quale non mancano già iniziative e strumenti. E tuttavia i risultati raggiunti appaiono ancora modesti, specie in relazione alle necessità di potenziamento del tessuto produttivo: il numero di nuove imprese industriali è molto limitato. La perdurante debolezza della domanda locale certamente non aiuta; così come appaiono problemi soprattutto nelle prime fasi di crescita, per l’acquisizione sia di quei “capitali pazienti” di medio lungo termine, sia di quelle competenze professionali, soprattutto manageriali, che possono assicurare la crescita aziendale. Il tema merita, probabilmente, un più compiuto investimento in termini di politica industriale: con un più stretto raccordo delle diverse iniziative esistenti, anche in sede locale e con l’intervento di un soggetto nazionale in grado di fornire seed capital pubblico di lungo termine, che stimoli, affianchi e garantisca l’acquisizione di capitali privati. Un secondo canale di potenziamento sono interventi espliciti di attrazione di nuove attività industriali, attraverso lo strumento dei contratti di localizzazione. Vi sono programmi sia in sede nazionale sia in sede regionale, che possono però creare fenomeni distorsivi, fino a vere e proprie concorrenze localizzative: appare opportuno che vi sia un unico soggetto, a scala circoscrizionale, che definisca gli utilizzi di uno dei pochi strumenti con incentivi a fondo perduto. Vi è una grande difficoltà a selezionare le imprese più meritevoli, e soprattutto a definire intese che reggano nel lungo periodo e non si risolvano in meri aiuti al funzionamento: puntare sulla mera disponibilità di finanziamenti – nell’attuale quadro localizzativo europeo – appare strategia molto debole. Certamente è necessaria una competenza tecnica elevata, e l’utilizzo di modalità il più possibile competitive fra le imprese potenzialmente beneficiarie. Ma date la difficoltà ambientali persistenti nel Mezzogiorno la chiave più opportuna sembra quella di legare l’utilizzo dei contratti a specifici progetti localizzati di sviluppo industriale. Si possono promuovere contratti che vedano la partecipazione non solo delle imprese beneficiarie ma anche delle autorità regionali e locali, che possono contribuire fornendo incentivazioni localizzative accessorie (dalla formazione ai servizi alle imprese). Come ai tempi della prima industrializzazione, appare ragionevole concentrare sforzi e disponibilità in luoghi specifici, dove le possibilità di successo appaiono maggiori. Ve ne sono in tutte le regioni, e ve ne sono di diversa tipologia. Si può pensare ad un utilizzo mirato dei contratti di localizzazione nei grandi hub portuali del Mezzogiorno (in primis Gioia Tauro e Taranto, ma anche nella portualità campana o sarda) in connessione con progetti di lungo termine di re-infrastrutturazione e potenziamento dei servizi in parte già previsti dalla programmazione dei fondi strutturali; offrendo così non solo risorse finanziarie, ma anche opportunità localizzative originali e competitive (per tutte le attività retroportuali/logistiche o di assemblaggio). Si può pensare a un utilizzo connesso all’esistenza di attività agricole ed agroindustriali competitive, che sono presenti in molte aree del Sud e che hanno mostrato una notevole resilienza alla crisi: produzioni agroindustriali e alimentari, basate sulle risorse e sui saperi disponibili, orientate ai grandi mercati internazionali. Si può pensare, ancora, ad un utilizzo connesso ai distretti tecnologici esistenti nel Mezzogiorno – anch’essi in genere sopravvissuti con relativo successo alla grande crisi – per offrire opportunità localizzative connesse alla compresenza (a Napoli e a Brindisi, a Catania come a Cagliari) di nuclei di impresa, capitale umano di qualità, tradizione industriale. Infine, si può pensare a favorire la localizzazione di imprese legate alla cultura, alla creatività e alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (così come grandi attività di terziario avanzato) nelle grandi aree urbane del Mezzogiorno, che, con tutte le loro difficoltà, esprimono un forte potenziale localizzativo in termini di saperi, culture, giovani ad alta qualificazione, magari anche in relazione a grandi progetti di rinnovamento urbano (a cominciare da Bagnoli). Distretti industriali e tecnologici, poli logistici, città possono così rappresentare le leve di una strategia di attrazione che non può essere de-specializzata e basata esclusivamente su incentivazioni finanziarie, ma al contrario legata ai vantaggi localizzativi che esistono al Sud. Ciò richiede un forte investimento politico nella promozione delle opportunità (è questione di Primo Ministro non di un dirigente di un soggetto attuatore); e soprattutto interventi mirati per rendere la governance sia delle aree che dei progetti assai più semplice ed efficace di quanto non sia stata in passato o non sia ancora oggi. Non si tratta di commissariare le realtà locali: tutt’altro; ma di assicurare modalità di collaborazione multi-livello e fra più soggetti di grande efficacia. Distretti industriali e tecnologici meritano un radicale ripensamento delle molteplici iniziative degli ultimi anni; per disegnare, anche sulla scorta delle migliori esperienze internazionali, processi di sviluppo di lungo termine, caratterizzati non da interventi a pioggia, frammentati, ma dalla definizione e continua verifica di programmi di sviluppo; sui quali far convergere, laddove si raggiungano progressivamente gli obiettivi definiti, ulteriori risorse pubbliche: per le attività produttive, per la formazione, per l’innovazione e la ricerca. Infine, non può essere trascurato il ruolo di un soggetto pubblico mirato all’industrializzazione del Mezzogiorno. Con la stessa intensità e prospettiva politica dell’esperienza dell’IRI e delle Partecipazioni Statali negli anni 50, 60 e 70, ma con evidentissime differenze in quanto a soggetti, modalità, strumenti, frutto delle nuove condizioni, dell’esperienza del passato e di quanto è stato imparato. Ciò che serve non è una nuova proprietà pubblica delle attività industriali. Ma un soggetto – che persegua un interesse pubblico – in grado di affrontare progetti complessi e di grande dimensione; di catalizzare capitali e competenze privati, nazionali e soprattutto internazionali; di assicurare una gestione di carattere privatistico e la profittabilità delle iniziative, resistendo alle intrusioni della politica di minor qualità. Come si è visto, il tema delle banche di sviluppo (o di soggetti simili), pur con diverse sfumature è presente in tutti i paesi europei. E come si è visto, quel che appare l’equivalente italiano, la Cassa Depositi e Prestiti, appare sostanzialmente assente dal Mezzogiorno. Con un chiaro mandato politico, e con la definizione di regole operative assolutamente chiare, si possono contemperare qualità della gestione, ritorni per gli investitori e la persecuzione di un importante interesse pubblico: quello all’industrializzazione del Mezzogiorno. Il Fondo Italiano di Investimento può dedicare attenzioni e risorse ben maggiori all’acquisizione di partecipazioni di minoranza in imprese di piccola e media dimensione del Sud per favorirne processi strategici di crescita. Ma è soprattutto il Fondo Strategico Italiano che può svolgere un ruolo importante, favorendo nuove iniziative “sistemiche”: cioè di scala, complessità e durata tali che le risorse private, per i propri vincoli finanziari, informativi e manageriali, non sono in grado di assicurare. Non si tratta di distorcere i mercati, ma di superarne gli evidenti, forti, fallimenti: la parcellizzazione dei soggetti, i vincoli di know how, gli stessi interessi alla frammentazione, le diseconomie di scala. Possono essere immaginati – e poi attentamente verificati – non pochi interventi di sistema. La concentrazione, con un poderoso incremento di efficienza e redditività, delle utilities del Mezzogiorno (aziende idriche, energetiche, del trasporto), anche con una ampia partecipazione di capitali privati, trasformandole in aziende a tutti gli effetti in grado di produrre lavoro e ritorni sugli investimenti, oltre che servizi assai migliori. Una parziale concentrazione dell’offerta ricettiva, soprattutto di maggiore qualità, con una forte specializzazione nel turismo destagionalizzato, culturale e soprattutto congressuale; ovvero un intervento di rete, di “sistema” sulle molte esperienze di ospitalità diffusa, in modo da assicurarne standard di qualità internazionali e una promozione verso i moltissimi potenziali utilizzatori (anche per soggiorni di lungo periodo, specie non in estate, di cittadini dei Nord dell’Italia e dell’Europa). Ancora, un intervento diretto, con grandi operatori internazionali, nelle attività connesse alla logistica. In campo più strettamente industriale, il Sud dispone di produzioni agroalimentari di straordinaria qualità e diversificazione, ma che – per i vincoli dimensionali e strategici dei soggetti produttori – raggiungono solo una infinitesima porzione della domanda potenziale, europea ed extraeuropea: un soggetto aggregatore può moltiplicarne l’impatto, disegnando sia una strategia produttiva e logistica efficiente sia, soprattutto, un intervento diretto nella distribuzione finale, con reti proprie e in collaborazione con i grandi operatori distributivi internazionali. Anche nel campo delle energie alternative, dove è ampia la produzione e crescente il know how, ma assai scarsa la produzione di apparati, sistemi e soluzioni, e quindi assai modesto il contributo in termini di lavoro ed esportazioni, un soggetto aggregatore delle realtà esistenti può progressivamente proporsi sui grandi, e crescenti, mercati internazionali. I primi timidissimi, modestissimi, segnali di ripresa non devono determinare il gravissimo errore di pensare che, ormai, il peggio sia alle spalle e la ripresa dell’accumulazione, delle produzione, del lavoro, ormai a portata di mano. Al contrario, devono spronare a disegnare strategie ambiziose e intelligenti per coglierne i possibili vantaggi, e avviare così un vero e proprio ciclo storico di rilancio dell’industria nel Sud.
Lascia un commento