Da tempo osservo come il tragico problema del Mezzogiorno sia progressivamente uscito dai nostri riflettori. Nemmeno l’accurata e cruda analisi che la Svimez compie ogni anno riesce a risvegliare il minimo dibattito su questa che rimane la più grave assoluta diversità del nostro paese rispetto a qualsiasi altra nazione europea. Forse c’è riuscito l’autorevole settimanale inglese “The Economist” che, sintetizzando i dati Svimez, ci propone un’analisi spietata del problema meridionale. Le cose andavano già male prima ma la tragedia si è aggravata negli anni della crisi: le otto regioni meridionali hanno visto la loro economia contrarsi del 13% di fronte al 7% del centro-nord.
Dei 943.000 nuovi disoccupati il 70% sono meridionali mentre il tasso di partecipazione al lavoro è il 40% rispetto al 64% del nord. Il tasso di occupazione femminile è oggi del 33%. Inferiore non solo al 50% del centro-nord ma anche al 43% della Grecia. Il livello di povertà assoluta è passato dal 5,8% al 12,6%. Il tasso di natalità è inferiore di quello pur bassissimo del nord, mentre, in questa prima parte di questo secolo, più di 700.000 persone hanno di nuovo risalito la penisola come emigranti e più di un quarto di questi è composto di laureati, privando quindi il Mezzogiorno di una possibile nuova classe dirigente.
Non mi sembra necessario procedere oltre nel riassumere l’analisi dell’Economist che, toccando anche il problema delle infrastrutture, della Pubblica Amministrazione e della giustizia, è costretto ad intitolare il suo servizio come “il racconto di due paesi.” Per concludere che, mentre la differenza fra le due Germanie al momento dell’unificazione era superiore a quella fra il nostro nord e il nostro sud, ora siamo noi a dovere constatare le differenze territoriali più drammatiche e crescenti.
Di fronte a questo quadro diventa persino comprensibile, anche se non giustificabile, il basso profilo del dibattito sul meridione, dato che nessuno ama discutere di problemi che appaiono quasi impossibili da risolvere.
Dopo l’abolizione della Cassa del Mezzogiorno non si è provveduto a costruire una nuova politica meridionalistica più moderna e meno soggetta alla corruzione politica ma si è semplicemente cancellato il problema dall’agenda, con l’illusione che la disponibilità dei fondi europei avrebbe permesso alle regioni meridionali di apprestare una nuova e più efficace strategia di sviluppo.
Troppo deboli, troppo diffusamente corrotte e troppo frammentate si sono rivelate le strutture regionali per potere preparare una strategia di sviluppo vincente. L’avere sciupato l’occasione dei fondi europei rende a tutti evidente che anche la disponibilità di maggiori mezzi finanziari non è sufficiente per avviare una uova strategia di sviluppo.
Occorre cioè un nuovo progetto a livello nazionale, con alcuni grandi disegni e con la mobilitazione coordinata di tutte le istituzioni e le rappresentanze politiche ed economiche del paese e con una totale mobilitazione dei cittadini. Ci vorrà tempo e pazienza ma bisogna subito cominciare a rimettere all’ordine del giorno il problema meridionale come il problema che condiziona il futuro di tutta l’Italia. Non pretendo a questo punto di esaurire in poche righe un’ impresa di tale portata e mi limito perciò ad elencare alcune riflessioni utili allo scopo.
Come ha ricordato il ministro Delrio in queste stesse pagine, bisogna prima di tutto ristabilire un ruolo italiano nell’economia del Mediterraneo. Dopo una bella partenza, il porto di Gioia Tauro è stato soffocato dalla società circostante mentre quello di Taranto, che aveva attirato grandi attenzioni da tutta l’Asia, non ha nemmeno potuto decollare perché per anni ed anni la burocrazia ha impedito che si approfondissero i necessari fondali.Nel frattempo i cinesi hanno comprato metà del porto del Pireo, mentre Algeciras, Barcellona e i porti egiziani hanno conquistato la parte maggiore dei traffici intercontinentali: solo una grande politica rovescia una situazione così compromessa.
In secondo luogo, tenuto debito conto del fallimento delle regioni, è urgente una politica nazionale per il turismo, con le necessarie catene alberghiere, le infrastrutture e operatori capaci di capire i mercati internazionali. È inutile che continuiamo a ripetere che i giacimenti culturali sono la nostra ricchezza quando la Sicilia, che non solo è tra le regioni più belle del mondo ma ha memorie storiche a non finire, ha meno di un decimo dei turisti delle Baleari, che hanno lo stesso clima della Sicilia ma non le stesse inarrivabili bellezze.
D’altra parte non sembra logico pretendere che un paese che vuole essere tra i leader del turismo mondiale non abbia nemmeno una catena alberghiera di rilevanza internazionale e nemmeno nazionale. In terzo luogo bisogna pensare a fare dell’università di Napoli e di Bari grandissimi centri di tecnologia avanzata, capaci di generare distretti di sviluppo di riferimento per tutto il paese e di dimensioni tali da attrarre risorse umane di assoluta eccellenza e generare nuove iniziative industriali per tutto il Sud.
A questo punto mi fermo con gli esempi perché le cose a cui mettere mano vanno ben oltre i casi elencati: bisogna infatti aggiungere l’agricoltura, il risanamento delle città e mille altri obiettivi da mettere in atto con la mobilitazione dell’intera società meridionale. Si tratta infatti di progetti che debbono essere coordinati dall’alto ma che che trovano vita solo se partecipati dal basso.
Non è un processo facile per una società sfibrata dalle sconfitte e umiliata dall’illegalità, ma un richiamo ad una nuova solidarietà non è certo un obiettivo impossibile.
Da parte mia ho notato con rinnovata speranza che l’ultimo rapporto Svimez si apre con un appello di mons.Nunzio Galantino, Segretario della CEI, che impegna tutta la Chiesa Italiana a costruire un’unità morale e materiale di tutto il paese, superando la questione meridionale e settentrionale in una prospettiva nazionale. Se gli incentivi economici non sono stati capaci di dare inizio ad una nuova politica per il Mezzogiorno credo che lo possa fare una comune consapevolezza di tutte le forze civili, religiose, sociali e politiche italiane. La tragica realtà del Mezzogiorno non può restare più a lungo nascosta. Visto che l’Economist l’ha messa a nudo, cominciamo almeno a discuterne.
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