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«Ho visto morire #Anatolij e non riesco a dimenticare il #pianto di sua #figlia»
11 Set 2015 08:12

Si può diventare eroi per caso e morirci, come Anatolij, presi da un irrefrenabile sentimento di giustizia. E si può essere, in attimi che valgono un’esistenza e restano scolpiti nella carne viva della propria anima, dei vili per calcolo timoroso che ti frena ogni slancio, smorza ogni impeto coraggioso. A 29 anni e dopo l’esperienza di quattro giorni fa, Lino Sgueglia lo ha capito assai bene. Ci ripensa e non ci dorme la notte, da quel sabato maledetto. Gli risuona, in un’ossessione condita da continui rimorsi, il pianto della piccola figlia di Anatolij. Della bambina che il padre aveva lasciato, per affrontare i due rapinatori entrati nel supermercato mentre lui e la figlia ne stavano ormai uscendo.

Lino è il direttore dei supermercati «Piccolo» da quattro anni. Anche la moglie lavora con la stessa società commerciale, nella sede principale di Sant’Anastasia. Lino vive ad Acerra, ma sabato era lì dentro, nel punto vendita di Castel di Cisterna quando sono arrivati gli assassini. Ha negli occhi i fotogrammi di quei secondi. Gli fanno male. Ma ancora di più gli fa male il suono del pianto di quella bimba che non riesce a dimenticare. Dice: «Continuo a sentire la vocina della bambina che chiama il papà, continuo a vedere i suoi occhi dinanzi a me. Non riesco a dormire da allora».

Solo un anno e mezzo d’età, il papà steso a terra morente. Qualcuno ha preso in braccio la piccola, l’ha portata negli uffici interni per non farle vedere altro. Per impedirle di avere dinanzi quel corpo senza vita che, fino a pochi attimi prima, la trasportava contento su un carrello del supermercato dopo aver fatto la spesa come sua abitudine. Un ucraino da dieci anni in Italia, pronto a reagire ad una rapina violenta. Le decine di persone che erano all’interno del supermercato, invece, sono rimaste impassibili. Il video registrato racconta che Anatolij per due volte si era trovato sul punto di avere la meglio, sarebbe bastato l’aiuto di qualcuno in quegli attimi per fermare i due rapinatori. Nessuno si è invece mosso in suo soccorso e questo brucia ancora nel ricordo di Lino Sgueglia. Sì, perché neanche lui è riuscito a vincere la paura.

Ora racconta: «Sì, ho chiesto aiuto a più persone che erano tra i clienti. La cosa che più mi fa star male è che l’intenzione di intervenire l’avevo, ma nessuno mi ha seguito. Nessuno ha accolto il mio invito». Una delle addette al box informazioni, Teresa, ricorda come il direttore abbia tentato di convincere altri ad intervenire con lui. Ma tutto è durato poco, frazioni di secondi per una vita spezzata invano. Al primo sparo, c’è stato il fuggi fuggi generale e, in quel momento, sarebbe stato impossibile convincere chiunque ad aiutare l’operaio ucraino. Lino si macera, in una confessione dolorosa: «Forse sono stato vigliacco, non so. Ma si è trattato di poche frazioni di secondo. C’era istinto, c’era rabbia, ma in quegli attimi mi sentivo come paralizzato. Ho assistito ad altre rapine, ma mai nessuna in questo modo».

La paura che taglia le gambe, il non intervento figlio di un terrore che non fa respirare. Lino non si nasconde, ammette: «Dirlo dopo che si doveva fare qualcosa è facile per tutti. Forse avrei potuto fare l’eroe anche io in quel momento, ma ora ci sarebbe un altro orfano. Mio figlio. A lui ho pensato».
Ai suoi figli, in quel momento, non ha pensato invece Anatolij. Ma forse ha avuto meno tempo per riflettere, per non lasciarsi travolgere da quell’impeto che non è riuscito a dominare. Contro di lui, i due assassini sono stati spietati. Lino Sgueglia racconta le successioni di una rapina-omicidio. Ricorda quelle due figure completamente coperte, con i guanti alle mani per non lasciare tracce. Ricorda la loro intimazione: «Questa è una rapina!». Spiega che non gli è sembrato avessero un accento particolare e neanche qualche segno che potesse aiutare a distinguerli. Insomma, se non ci fossero i fotogrammi delle telecamere, dalle sole testimonianze sarebbe assai difficile qualsiasi identikit degli assassini, nonostante vi fossero nel supermercato oltre cinquanta persone.

C’era coda alle casse, per l’ora di punta. E questo il direttore Sgueglia lo ricorda bene. È sempre così di sabato sera. Racconta: «Quando sono entrati, è stato il caos. La gente scappava in fondo al supermercato lontano delle casse. Si nascondeva dietro gli scaffali, o nei pressi della macelleria». Insomma, ognuno ha pensato a mettersi in salvo e aggiunge il direttore: «Le cassiere erano spaventate come gli altri, ma hanno fatto il loro dovere. Il signor Piccolo, titolare del supermercato, ci dice sempre che la nostra vita e quella dei clienti vale ben più di poche centinaia di euro».

Sgueglia era ad un metro dal box informazioni dove è stato ucciso Anatolij, poco distante dalla cassa dove si sono indirizzati i rapinatori. Ricorda: «Veniva a fare la spesa tutti i giorni, era una persona educatissima. Salutava, ti stringeva la mano. Mentre usciva con le buste della spesa nel carrello dove era seduta la figlia, ha incrociato i rapinatori sulla porta».
Anatolij non ci ha pensato su due volte, ha lasciato la figlia e il carrello gettandosi sul rapinatore con la pistola, afferrandogli il polso. I due sono finiti a terra, il rapinatore ha cominciato a picchiare, infierendo con una penna. Scene di crudeltà estrema, scene di morte fissate dalle immagini registrate nei video di sicurezza. Lino Sgueglia non è riuscito a rivedere quei fotogrammi fino in fondo: troppo dolore, troppa violenza, troppo male. Spiega: «Sì, rivedere quelle scene non mi è possibile. Ci si rende conto di quanta ferocia sia stata usata, con quanta cattiveria il rapinatore abbia conficcato la penna sul collo di Anatolij».

È stata quella penna a risultare fatale. Quella punta conficcata in parti vitali a causare la morte per dissanguamento. Le due ferite da colpi di pistola non sarebbero da sole riuscite a provocare la morte dell’operaio ucraino. E questo rende ancora più assurde le fasi di quell’omicidio: una penna è risultata più pericolosa di una pistola. Una penna che poteva essere fermata. Gli ultimi attimi di Anatolij in vita, gli ultimi istanti condensati in un ricordo disperato. Lino Sgueglia ha la voce rotta dalla commozione, a ricordare. Dice: «Non è riuscito a dirmi nulla, mi guardava sofferente, tentava di respirare. So che sentiva la voce della figlia, ma aveva già quasi perso coscienza. L’ho visto morire così, mentre tentavo di rianimarlo. Avevo sentito i colpi, senza vedere chi dei due aveva sparato. Sono corso accanto ad Anatolij mentre i due, dopo aver abbandonato il bottino, fuggivano».

Tanto sangue fuoriusciva dal collo, dal punto in cui la penna era stata conficcata con violenza. Il racconto di Sgueglia arriva all’epilogo, al dramma finale: «Gli abbiamo sistemato dello Scottex, cercando di fermare l’emorragia. La ferita allo stomaco provocata dal colpo di pistola, invece, non sembrava sanguinare. Ho provato a fargli il massaggio cardiaco, mentre aspettavamo l’ambulanza».

Poi il nulla, la vita dell’operaio ucraino che se ne andava. Gli sguardi di commiserazione dei tanti testimoni immobili. La tragedia si era consumata, lasciando strascichi di rimorsi e terrore tra chi vi aveva assistito. E il pianto di quella bambina rimasta orfana a 17 mesi. Un pianto che accompagnerà per sempre gli incubi notturni di Lino Sgueglia.

(fonte il Mattino)


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