A nove giorni dall’analisi fatta sul quotidiano Il Mattino sui riferimenti culturali delle nuove leve criminali nei quartieri-Stato del centro storico di Napoli, i commenti e le reazioni sono stati numerosi.
È la fiction «Gomorra la serie», con i suoi personaggi e i suoi slang, ad aver diviso le varie opinioni.
C’è chi allontana sospetti di influenze negative in ambienti poco attrezzati culturalmente e omogenei a quelli descritti dalla fiction, con l’argomento assorbente del planetario successo del prodotto televisivo.
Chi, invece, accusa i detrattori di invidia e autoassoluzione per non aver saputo raccontare con la stessa efficacia quegli stessi ambienti criminali, autoassolvendosi a sua volta dietro l’argomento della denuncia necessaria da non censurare. In tutti, a me sembra, si elude il nocciolo della questione: la narrazione e il taglio scelto, condito da inevitabili eccessi spettacolari legati allo strumento televisivo, per raccontare il male in maniera accattivante.
Insomma, non è solo questione di scelta d’argomento, ma di come si tratta il tema. E, nelle ultime ore, anche le ultime vicende giudiziarie del cantante neomelodico Raffaello, interprete nella colonna sonora di Gomorra, contribuiscono a sfumare e confondere le divisioni rivendicate tra realtà, narrazione, fiction, in un universo dove invece tutto sembra ormai compenetrarsi. In questo modo, lo spettatore poco avveduto miscela tutto in una sola verità ed esempio, senza naturalmente distinguere tra bene e male. Si diffonde un’estetica del male che assimila prodotto di successo, format di profitto e realtà annientando l’effetto annunciato della denuncia sociale. Una narrazione del male per il male, che annulla, di fatto, gli intenti socio-culturali, trasformandoli in appiattimento di pura constatazione della realtà negativa. Non c’è più spazio per l’indignazione, o la riprovazione, perché i protagonisti del male prendono tutta la scena, assorbono simpatie e immedesimazioni.
Il messaggio sono loro, con il loro esempio e le loro storie. Nei quartieri-Stato, dove vecchi boss e antichi riferimenti criminali in carne e ossa sono in galera o collaborano con i magistrati, tra i giovani rampanti del clan è ormai avvenuta la sostituzione ideale con i modelli virtuali televisivi, che affascinano nuove leve delinquenziali e loro epigoni. Chi nega che rappresentare una realtà sia sempre una scelta estetica, si trincera nell’ipocrisia onnipotente della verità da non coprire.
L’immagine che si trasmette di Napoli, in qualsiasi ambito, è scelta narrativa e si conferma sempre più come lo stereotipo della napoletaneria soddisfi meglio l’audience.
Non è più tempo di napoletanità, che è storia, identità, cultura, ma della sua potente degenerazione mediatica: la napoletaneria, appunto, che è esteriorità, superficialità, folklore, esagerazione degenere.
La mamma che urla, si strappa i capelli, parla solo in dialetto stretto e bestemmia contro lo Stato è luogo comune più spendibile a livello mediatico di quanto lo fosse, mesi fa, la mamma di Ciro Esposito (il tifoso ucciso a Roma), donna pacata, che si esprimeva in perfetto italiano e predicava giustizia e comprensione.
Ecco, anche certi stereotipi del male assoluto, l’etica ed estetica delle degenerazioni sociali trasformate in rappresentazioni di successo sono ormai business. E non ci si può certo meravigliare se, tra i milioni di telespettatori, ce ne siano tantissimi anche tra i criminali in ascesa che considerano quei boss virtuali solo dei loro idoli da emulare nella realtà. Nell’esagerazione, nell’eccesso della spettacolarizzazione, tutto diventa di più. Per i giovani criminali, i boss televisivi sono modelli da raggiungere. Modelli d’eccesso da eguagliare, per trasformarli realmente in proprie immagini allo specchio.
(fonte Quotidiano Il Mattino)