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Ecco come lo Stato può aiutare (davvero) chi perde il lavoro
06 Dic 2014 07:12

Rendiamo obbligatorio l’outplacement.

Ogni settimana, quasi ogni giorno, leggiamo di imprese in crisi, costrette a licenziamenti collettivi o alla chiusura; uno degli effetti più tangibili della tremenda crisi che stiamo vivendo, non solo al Sud. E tutto questo accade con le Istituzioni che non riescono a far quadrare i conti dei propri bilanci e non sono in grado di ricorrere a misure anticrisi “tradizionali” come il finanziamento di ammortizzatori sociali in deroga.

I soldi sono finiti, le politiche passive del lavoro non hanno più copertura. In questo scenario, ciò che andava fatto da anni non è più rinviabile: va percorsa un’altra via, bisogna innovare i modelli di sostegno dei lavoratori nella ricerca di nuova occupazione.

Devono tornare in primo piano le politiche attive del lavoro.

Tra queste, l’outplacement, il servizio specialistico che accompagna concretamente chi perde il lavoro nella ricerca di una nuova opportunità, è stranamente poco diffuso in Italia, anche se comparso per la prima volta già negli anni ’80.

Sono testimone diretto dell’indifferenza che lo circonda, della scarsa considerazione che gode persino nei sindacati: nelle trattative di gestione delle crisi aziendali che mi è capitato di condurre, hanno chiesto di monetizzarlo, trasferendo ai lavoratori l’equivalente economico del servizio qualificato di ricollocazione.

Sottovalutando, nei fatti, la difficoltà di trovare un nuovo lavoro.

Le cifre sono eloquenti: in Italia l’outplacement coinvolge appena 8mila persone l’anno, per un giro d’affari di circa 25 milioni di euro, contro i 190 della Germania e i 220 della Francia. Eppure, in molti casi, funziona.

Con percentuali di ricollocazione dei lavoratori che sfiorano l’80% (i dati Aiso, l’associazione italiana società di outplacemet, dicono che nel 2013 ci sono stati 9.163 ricollocamenti, con il 77% di tasso di successo, per un’età media dei candidati di 45 anni).

Andrebbe reso obbligatorio, come in Francia, dove le aziende che licenziano hanno il dovere contrattuale di aiutare i lavoratori a reimpiegarsi. Se il licenziamento fosse accompagnato sempre da programmi di ricollocamento costruiti intorno alle esigenze di ogni singolo lavoratore, il periodo di disoccupazione potrebbe ridursi significativamente, con vantaggi economici molto significativi per le casse dello Stato.

Ma cos’è l’outplacement? Un servizio erogato da società specializzate, autorizzate dal ministero del Lavoro, che attivano interventi di tipo psicologico e consulenziale, di analisi delle capacità e delle competenze dell’individuo, degli eventuali bisogni formativi o motivazionali, di accompagnamento nella ricerca attiva del lavoro.

L’obiettivo finale è aiutare fattivamente il lavoratore ad affrontare il mercato nel quale è interessato a trovare ricollocazione.

Due le tipologie d’intervento: una di tipo individuale, sulla base di un accordo tra azienda e singolo; un’altra, di tipo collettivo, che presuppone l’intesa tra azienda, organizzazioni sindacali e dipendenti.

I vantaggi per l’impresa ci sono: la possibilità di limitare l’impatto sociale sulle persone coinvolte in situazioni spesso traumatiche come le ristrutturazioni aziendali, l’opportunità di abbassare il livello di conflittualità, in particolare con l’outplacement individuale, e di ridurre i contenziosi e i costi ad essi associati.

La parte più difficile del lavoro per le società specializzate di outplacement è nel rapporto con l’individuo: deve elaborare il lutto della perdita del posto di lavoro, deve superare la paura del cambiamento, deve abbandonare rigidità e resistenze; deve essere, in altri termini, completamente rimotivato.

C’è bisogno di un salto culturale di tutti gli attori del mercato del lavoro. E Stato e Regioni devono percorrere strade diverse nel campo del welfare.

Il tradizionale approccio, esclusivamente assistenzialista, si è rivelato costoso e inefficace.


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