Da sabato 19 settembre, cominciano le manifestazioni in ricordo dell’uccisione di Giancarlo Siani, cronista del Mattino dalla faccia pulita, ucciso perché, senza protagonismi e con umiltà, svelò particolari sgraditi alla camorra collegata alla mafia siciliana. Se non fosse stato per l’associazione Siani, per il fratello Paolo e per Il Mattino, anche il ricordo di questa vittima del crimine impietoso sarebbe sfumato. Ma 30 anni dopo, si respira, a Napoli, un’aria di paura, di fastidio, di lontananza da retoriche e denunce.
Lo ha dimostrato il flop della marcia anticamorra organizzata a Soccavo, lo confermano le ambiguità dei funerali del diciassettenne ucciso alla Sanità, i tentennamenti di associazioni anticamorra spuntate come funghi anche sulla scia del successo planetario del libro di Saviano che, quando morì Siani, aveva appena sei anni.
Cosa succede, che città è Napoli, incapace come lo fu Palermo dopo gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino, di un vero scatto di reni, di una rigenerazione collettiva di fronte alla recrudescenza criminale?
Inutile girarci intorno, mai come negli ultimi giorni è palpabile la storica frattura culturale, che divide le due parti di Napoli e sembra accentuarsi: da una parte, quello che una volta si chiamava il popolo e qualcuno definisce l’eterna plebe di Napoli; dall’altra i cosìddetti ceti intellettuali, la gente della media e alta borghesia.
Frattura socio-culturale, sempre più profonda di fronte a ciò che accade negli ultimi mesi. Si avverte un diffuso compiacimento della divisione che è soprattutto di tipo culturale, di sentire della realtà, oltre che socio-economica. E’ quella storica separazione, sintetizzata nella differenza tra napoletanità e napoletaneria, dove la prima è orgoglio storico e identità profonda, mentre la seconda ne è solo la brutta copia, l’esteriorità, il folklore, la volgarità.
Di fronte a giovani ventenni che si ammazzano e sparano, con 25 agguati verificatisi in pochi mesi nel centro antico, e scimmiottano i loro padri e zii spacciandosi per camorristi, ci si trincera smarriti nella frattura netta della città.
Un esempio sintomatico è stato venerdì 4 settembre, alla presentazione nell’ex supercinema di Forcella del libro di Paolo Miggiano sulla morte, undici anni fa, della tredicenne Annalisa Durante, rimasta uccisa nel corso un agguato tra rivali criminali del quartiere.
Quel 4 settembre, all’incontro assistevano solo persone estranee al quartiere, gente da fuori a parlare di cultura, camorra, necessità di voltare pagina. L’altra città, quella cui dovrebbero indirizzarsi e con cui dovrebbero tenersi questi confronti, non c’era. Guardava con diffidenza, aspettava che quella gente, compreso il questore Guido Marino che vi partecipava, se ne andasse presto. Per quella parte, lo Stato è lontano, ladro, bugiardo, ipocrita. E non a caso gli alibi di chi delinque dal basso sono sempre gli esempi negativi dei delinquenti in giacca e cravatta.
La città plebea si compiace dell’isolamento, si chiude in se stessa in un’autoreferenzialità da piccole economie, legalità provvisorie, sottocultura da fiction violente e cantanti neomelodici, motorini a go go e frequentazioni di strade e bar. Una volta, quest’altra città sperava nell’integrazione, nella scalata sociale, nella crescita culturale. Ora, preferisce chiudersi nei suoi quartieri-Stato, voltandosi dall’altra parte allo spaccio, allo scippo, ai paletti che il vicino impianta in strada per difendere il suo posto auto personale, in una via pubblica come accade ai Quartieri Spagnoli.
C’era una volta la plebe, che descrisse in un suo splendido saggio-ricerca, “La dorata menzogna”, il professore Atanasio Mozzillo. La plebe che Benedetto Croce considerava attrice principale della camorra e per questo non volle mai approfondire la storia dell’organizzazione criminale napoletana. La plebe che nel 1799 Eleonora Pimentel Fonseca pensava di conquistare scrivendo qualche articolo sul “Monitore napoletano” anche in “lengua napolitana”. C’era una volta la plebe, a coabitare con una borghesia che, come classe sociale compatta, ha sostenuto Aldo Masullo, non è mai esistita a Napoli. E preferisce farsi culturalmente plebe anch’essa invece di dare esempi positivi. E’ rassegnazione.
E’ davvero in atto ancora la grande ambiguità-frattura, fatta di disinteresse reciproco nella coabitazione metropolitana, favorita dalla particolare struttura urbanistica cittadina, con opposti che si tollerano fin quando non si pestano i piedi a vicenda. Ne è stato l’esempio il fallimento del teatro Trianon a Forcella, che poteva diventare riferimento culturale del quartiere, ma che ha chiuso perchè l’altra città, quella che frequenta i teatri nelle altre zone di Napoli, non vi si spostava per paura.
Due città che non si capiscono, distanti. Basta farsi una passeggiata, dopo le sei del pomeriggio, in questi giorni a piazza Carolina per averne una visione plastica: motorini a quattro persone che vanno verso via Gennaro Serra, urla, tatuaggi. Poco più avanti, verso il bar Gambrinus, turisti entusiasti a guardare piazza Plebiscito.
Se il questore Marino invita a “non darla vinta a quattro parassiti” riferendosi ai ventenni che si ammazzano, proliferano gang metropolitane che di struttura di camorra, intesa come organizzazione criminale con sue logiche, non hanno nulla. E’ scenario criminale nuovo, in un contesto in cui la napoletanità sembra arrendersi per sfiducia alla napoletaneria.
L’immagine di Napoli è quella che si racconta, seguendo scelte e tagli narrativi. Ed è un complesso cocktail di bianco e nero, ma anche di tanto grigio. Di sopportazione, di rassegnazione fatalistica. Il tappo tra le due città sembra saltare e mai come oggi l’analisi che fu del compianto Amato Lamberti trova conferma: le gang metropolitane, la camorra, sono ammortizzatori sociali, che impediscono ribellioni violente. Nella tolleranza alle illegalità del crimine piccolo e grande, si evitano di fatto le rivoluzioni politiche dal basso, stravolgimenti traumatici che nascono sempre per necessità economiche.
Chi sarà in grado di ricominciare a riprendere i fili di una realtà sfilacciata, partendo dalla visibile frattura tra le due città? Non basta, è evidente, raccontare e parlare delle bellezze cittadine, della sua grande storia e della sua profonda identità antica. Occorre altro, ripartendo oltre la repressione giudiziaria. Se si lascia a lungo un vetro rotto, dopo che un tizio vi ha gettato un sasso, chiunque si sentirà autorizzato a rompere altri vetri con altri sassi. Il degrado, la volgarità, la napoletaneria vanno affrontati facendosi tutti protagonisti di una grande rivoluzione culturale. E dell’impegno collettivo. Della gente di buona volontà, si dioceva una volta. A Napoli, le due città sono troppo distanti tra loro e non si capiscono. E’ il vero dramma da affrontare. Prima che sia troppo tardi.
(fonte Il Mattino)