‘Depenalizzato‘, dalla Cassazione, il diritto dei militari semplici, senza stellette sulla divisa, di criticare aspramente, gli ufficiali che li comandano con metodi oppressivi. Ad avviso della Suprema Corte – che è anche giudice militare di ultima istanza – esiste non solo un diritto “ma addirittura un dovere militare, e civico, alla denunzia di comportamenti contrari ad una amministrazione della disciplina militare in senso compatibile con l’assetto democratico dell’apparato statuale e con i principi costituzionali che regolano l’ordinamento delle Forze armate“.
Con questa importante motivazione la Cassazione ha assolto definitivamente, dopo una lunga odissea giudiziaria, un brigadiere della Guardia di Finanza del nucleo di polizia tributaria di Lecce che aveva denunciato, sotto pseudonimo, con un post su un forum in rete i metodi “da Gestapo” vessatori usati dai capi, in vari modi, controllando persino quante volte i militari andavano in bagno.
Per la sua ‘denuncia‘ su internet, Giovanni S. era stato processato, con l’accusa di diffamazione aggravata nei confronti del maggiore Giulio Rocco S. che comandava il nucleo di Lecce e del comandante provinciale delle fiamme gialle salentine Michele D. A., e condannato in appello nel 2012 a quattro mesi di reclusione militare. Già una prima volta, nel maggio del 2013, la Cassazione aveva annullato con rinvio la condanna del brigadiere chiedendo in suo favore un processo più equo che riconoscesse anche ai militari delle ‘fiamme gialle‘ “il diritto costituzionale di critica” specie in presenza di fatti la cui veridicità era stata accertata dalle testimonianze in dibattimento.
A seguito dell’appello bis, la condanna a carico di Giovanni S. veniva ridotta a due mesi di reclusione e a 500 euro di risarcimento danni in favore del maggiore. Era stato infatti provato che l’ufficiale ordinava “continui e ripetuti controlli a sorpresa” ai quali adibiva “personale distolto dai compiti di servizio“, ispezionava “personalmente che nessuno consumasse un qualche alimento durante il servizio (anche annusando l’aria e controllando i cestini getta carte)“. Il maggiore, inoltre, “frazionava i servizi esterni per impedire la fruizione dei buoni pasto” e, cosa più grave, aveva adibito a servizi esterni il militare B. che era esonerato da tali compiti “per gravi invalidità di servizio” e che non poteva così servirsi frequentemente del bagno come richiedevano le sue compromesse condizioni di salute.
Per aver definito questa situazione come vessatoria, oppressiva e persecutoria, il brigadiere era stato assolto nell’appello bis che però non gli perdonava di aver definito la catena di comando come “Gestapo salentina” e “Stato di terrore” il ‘regime‘ che si viveva nel nucleo di Lecce. Ora, accogliendo totalmente il ricorso del brigadiere-imputato, la Cassazione ha affermato che queste espressioni sono “evocative di gestioni esasperate e antidemocratiche del potere poliziesco” ma siccome sono accompagnate da “adeguata base fattuale” non possono considerarsi “estranee al diritto di critica o eccedenti i valori democratici e gli interessi umani che l’imputato pretendeva di difendere“. Per questa ragione il finanziere è stato assolto per “aver agito nell’ambito del diritto di denunzia e del diritto di critica“. Per quanto riguarda, infine, l’accusa di aver diffamato il comandante provinciale, la Suprema Corte – sentenza 36045 della Prima sezione penale, presidente ed estensore del verdetto Stefania Di Tomassi – ha ritenuto “non punibile” Giovanni S. dal momento che non solo era lui a firmare gli ordini di servizio ed era informato del ‘metodi‘ del maggiore, ma dal momento che gli era “sovraordinato in grado” e non aveva impedito le vessazioni era come se le avesse “cagionate” anche lui dato il suo ruolo di “comando e garanzia“.