Proprio nel momento in cui il Mezzogiorno, colpito dalla crisi assai duramente e in misura maggiore rispetto al resto del paese, avrebbe bisogno di una riflessione culturale e di un’azione politica di straordinaria incisività sembra mancare da parte del governo una strategia all’altezza delle difficoltà del presente.
Alcune recenti scelte di politica economica segnano peraltro un arretramento rispetto a quanto fatto dai due esecutivi precedenti. È necessario ripartire dai principi di progresso sociale e di uguaglianza tra i cittadini che dovrebbero ispirare un partito di centrosinistra.
Nel periodo in cui si registra il peggiore andamento per l’economia del Mezzogiorno dall’Unità a oggi, con un arretramento di oltre 13 punti di PIL nel 2013 rispetto al 2007, per un curioso paradosso la riflessione culturale e politica sulle sue possibilità di ripresa e sulle concrete politiche per realizzarle è anch’essa ai minimi storici. È l’effetto di una deriva che viene da molto lontano: quella di “abolire il Mezzogiorno” e ridurre le politiche di sviluppo territoriale in Italia.
Una deriva rispetto alla quale sono stati modesti l’interesse e la capacità di risposta della politica e in particolare di quelle forze che si ispirano a principi di progresso sociale e di maggiore uguaglianza fra i cittadini. Deriva oggi aggravata dagli effetti delle politiche di austerità, nazionali ed europee, dalla vera e propria “trappola” in cui è serrata l’economia europea.
Tutto questo, naturalmente, non è responsabilità del governo Renzi. A esso, però, è possibile imputare non solo una assenza di riflessione strategica all’altezza delle difficoltà che il Mezzogiorno sta sperimentando, ma anche un’azione concreta di politica economica che fa nascere dubbi e che per alcuni aspetti sta cancellando i passi avanti che si erano registrati con gli esecutivi Monti e Letta. Questo può essere esemplificato in negativo da una sola, emblematica vicenda.
Con l’articolo 12 della legge di stabilità per il 2015 il governo ha disposto la cancellazione di investimenti nel Mezzogiorno per 3,5 miliardi di euro, tagliando le risorse del Piano di azione coesione.4 Ciò che colpisce in questa scelta è la mancanza di motivazione specifica: non si trattava di risorse “in scadenza”, né di risorse destinate a Regioni “inefficienti” (dato che per metà l’attuazione del Piano è responsabilità di amministrazioni centrali); tantomeno si trattava di risorse frammentate, dato che esse miravano a grandi, condivise priorità. Non a caso non viene disposto, con la norma di legge, quali interventi saranno tagliati: il governo, semplicemente, usa le risorse per gli investimenti nel Mezzogiorno come un bancomat, esattamente come fatto più volte dal governo Berlusconi nel 2008-11.
Non ha giustificato questa decisione e, cosa assai rivelatrice, quasi nessuno gli ha chiesto di farlo, quasi nessuno ha protestato. Il che spiega bene perché si riducono le risorse per investimenti nel Mezzogiorno: perché non costa nulla politicamente; nessuno, ormai, protesta più: a cominciare dai suoi rappresentanti politici, anche dei partiti ora di maggioranza. Ma proviamo ad articolare, brevemente, un discorso più generale.
L’Italia è certamente a un difficilissimo tornante storico del suo sviluppo, che la sta ponendo di fronte a due grandi questioni: da un lato, rendere assai più sostenibile, efficace ed efficiente il suo vasto settore pubblico; dall’altro, rilanciare gli investimenti, pubblici e privati, per sostenere la crescita. È da queste grandi questioni che scaturiranno collocazione e ruolo del Mezzogiorno nel futuro; come sempre, è alle grandi politiche ordinarie che bisogna guardare.
Pur tenendo conto delle eccezionali difficoltà in cui gli esecutivi devono muoversi, le dinamiche che si colgono non sono incoraggianti. Sul primo aspetto è evidente come ci sia bisogno di una vera, grande spending review: una revisione profonda e innovativa della spesa, che ne riveda indirizzi e obiettivi e che, soprattutto, lavori per garantire maggiore sostenibilità, qualità ed efficacia dell’intervento pubblico. Con effetti profondi sulle capacità delle amministrazioni e conseguenti benefici per i cittadini e le imprese, che potrebbero essere molto grandi soprattutto al Sud.
Un progressivo riutilizzo delle risorse pubbliche capace davvero di tener conto di “meriti e bisogni”, articolato in base a valutazioni corrette delle necessità di spesa (anche alla luce delle ben diverse dotazioni territoriali di capitale pubblico e infrastrutture) e su indicatori di risultato e modalità di premio e punizione. Non si vede molto di tutto questo.
Il taglio della spesa continua ad avvenire in modo lineare o su indicatori derivati dalla legislazione sul federalismo fiscale che fanno sorgere non pochi dubbi; in base a indicatori di “merito” estremamente discutibili, è in corso dal 2008 un enorme taglio di risorse al sistema universitario del Sud; le azioni redistributive (si pensi ai famosi 80 euro) premiano comunque i già occupati, mentre ben poco si muove sul fronte dell’inclusione sociale e della lotta alla povertà, concentrata nel Mezzogiorno; lo spostamento della pressione fiscale in sede regionale e locale riduce la progressività dell’imposizione.
L’effetto è evidente: le politiche economiche stanno colpendo in modo particolare il Mezzogiorno, dove – assai più che nella media nazionale – la spesa corrente si contrae (specie nella sanità e nell’istruzione) e la pressione fiscale aumenta.
Sull’altro fronte, investimenti e crescita, continua a mancare un disegno strategico di politica industriale adatto ai tempi in cui viviamo e in grado, tra l’altro, di rilanciare l’accumulazione anche nel Mezzogiorno: per un’area così grande è impossibile immaginare un futuro prospero senza la presenza di un rilevante apparato industriale; e invece il valore aggiunto industriale continua a contrarsi più che nella media nazionale, mentre gli interventi a favore delle imprese – specie al Sud – sono ai minimi storici.
Contemporaneamente crollano gli investimenti pubblici, a danno principalmente delle aree meno sviluppate, in cui essi sono più importanti sia quantitativamente sia qualitativamente per migliorare le condizioni nelle quali i cittadini vivono e le imprese possono crescere: la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è calata di circa il 12% all’anno fra il 2010 e il 2012.
Il crollo dell’economia meridionale è, dal 2010 e contrariamente a quanto avvenuto negli anni precedenti, assai più intenso della media nazionale. Esso è frutto di due fattori: la minore capacità del Mezzogiorno di esportare, per trovare rimedio alla debolezza della domanda interna; ma anche l’impatto delle misure di riduzione della spesa (corrente e in conto capitale) e di modifica della pressione fiscale lungo le linee cui si è appena fatto cenno. Ancor più di quanto avvenuto a metà anni Novanta, l’area più debole del paese sta pagando il conto più salato della crisi.
A complemento delle grandi politiche ordinarie, l’Italia dispone in teoria di una propria politica di coesione territoriale. Ormai solo in teoria. Del vecchio Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) del 2007-13 si sono smarrite le tracce, nel gioco di stanziamenti, disponibilità effettive a bilancio e riprogrammazioni, in cui si è tra l’altro perso il vincolo di destinazione geografica (85% per il Mezzogiorno). Del nuovo, grande Fondo sviluppo e coesione (FSC) 2014-20 – la cui dimensione consente di sostenere che “enormi” risorse sono destinate al Mezzogiorno – non esiste, a fine 2014, neppure una programmazione di massima.
Questo punto è rilevante: le realizzazioni infrastrutturali al Sud sono ormai sempre più affidate alle disponibilità del FSC. Esse dovrebbero essere aggiuntive rispetto agli interventi ordinari. Ma questo da molti anni non avviene più: la destinazione delle risorse ordinarie per le infrastrutture è prevalentemente fuori dal Mezzogiorno. Pur con tutti i vincoli finanziari e con le difficoltà di consenso dei governi Monti e Letta, i ministri della Coesione territoriale Fabrizio Barca e poi Carlo Trigilia hanno provato a mettere ordine e a dare concreto impulso a queste politiche.
Il governo Renzi ha, invece, compiuto una scelta assai importante e molto negativa: non ha previsto un ministro per la Coesione territoriale. Un intelligente conservatore come Mario Monti, dopo i disastri ereditati dal governo Berlusconi, aveva compreso la natura prettamente politica della coesione: ripartizione di risorse scarse, loro utilizzo con il massimo di qualità.
Il governo varato dal maggior partito del centrosinistra italiano l’ha derubricata a tema amministrativo. Ma, d’altra parte, quale ministro avrebbe accettato un taglio di risorse per 3,5 miliardi, come quello operato nella legge di stabilità, senza perdere la faccia o dimettersi?
La discussione su tutti questi aspetti è inesistente. Al contrario, l’attenzione del mondo della politica, e un po’ dell’opinione pubblica, si concentra ossessivamente sui fondi strutturali europei. Si tratta di una parte delle politiche di coesione; risorse certo significative ma non commensurabili a quelle interessate dalle grandi politiche ordinarie; e certamente non in grado di sopperire alla carenza delle politiche di coesione territoriale nazionali. Parlando di fondi strutturali viene unanimemente sostenuto che le risorse disponibili per il Mezzogiorno sono tantissime; ma che esse non sono utilizzate (vengono sprecate/perdute) per colpa delle amministrazioni meridionali.
La tesi è ripresa e rilanciata con forza dal sistema nazionale dell’informazione: non è chiaro se solo per mancanza di capacità analitica o di inchiesta o anche per sostenere gli interessi dei propri gruppi editoriali: quando le risorse sono scarse, la competizione per ottenerle si fa più accesa. Ci sono certamente problemi di impostazione ma soprattutto di attuazione degli interventi finanziati dai fondi strutturali, che scontano gravissimi ritardi; così come esistono specifiche responsabilità in capo alle amministrazioni del Mezzogiorno: il lettore interessato può trovare altrove una più compiuta analisi.
Ma che le risorse dei fondi strutturali siano eccessive, e che siano prevalentemente sprecate, è semplicemente una “bufala”, non giustificata dai dati disponibili. Si tratta di una tesi che dimentica aspetti fondamentali: i fondi strutturali devono fornire ulteriore sostegno a politiche nazionali, specie industriali e di investimento pubblico, che invece in Italia non ci sono (causa prima di tutte le difficoltà); i fondi intervengono anche nel finanziamento di opere pubbliche, in un quadro nazionale in cui (come dimostrato tragicamente dalle vicende genovesi) esse hanno tempi di realizzazione assai lunghi e processi decisionali (come dimostrato dalle vicende milanesi, veneziane, romane) spesso infestati da commistioni viziose pubblico-privato. E che soprattutto dimentica che la responsabilità politica principale di queste politiche è in capo al governo nazionale.
L’aspetto più sorprendente del governo Renzi è che, pur apparentemente conscio delle significative difficoltà operative del ciclo di interventi 2007-13, ha varato una programmazione 2014-20 (con l’Accordo di partenariato appena concluso con la Commissione europea) che riproduce diverse criticità della precedente: modesta concentrazione tematica; interventi dispersi su ben 340 azioni previste, affidati ancora in misura prevalente a quelle amministrazioni regionali dal governo ritenute causa di ogni male.
La stessa Agenzia per la coesione, avviata dal governo Monti con l’idea che il governo nazionale dovesse acquisire maggiori responsabilità in queste politiche, procede con una lentezza davvero sorprendente: molti mesi sono stati necessari solo per il passaggio dall’“indicazione” alla nomina del direttore; il ridisegno di competenze e responsabilità fra Agenzia e Dipartimento per le politiche di sviluppo è ancora assai confuso: si sta forse riducendo, invece di aumentare, la capacità tecnica del “centro” in questi mesi così delicati?
La tesi dello spreco meridionale si rivela utile per operazioni politiche controverse. Il governo ha ad esempio annunciato l’intenzione di ridurre il cofinanziamento nazionale dei programmi dei fondi strutturali in Campania, Calabria e Sicilia dal 50 al 25%, perché queste Regioni sono in ritardo nella spesa. Una mossa utile per far quadrare i bilanci nazionali, ma che determina il paradosso per cui lo Stato italiano interviene accompagnando con proprie risorse quelle comunitarie assai più in Lombardia (50%) che in Calabria (25%).
Il governo, dunque, assume come un dato questi ritardi, invece di assumersi la responsabilità politica degli interventi (che, è bene ricordare, vanno completati entro il 2022) e quella tecnica di realizzarli (se le Regioni sono incapaci, intervengano ministeri e Agenzie), punisce i cittadini e le imprese delle tre Regioni più in difficoltà. Promette di collocare il mancato cofinanziamento nel contenitore già esistente del Piano azione coesione, proprio nei giorni in cui quel fondo viene usato come un bancomat. Così come riduce, invece di aumentare, il tetto stabilito dal Patto di stabilità interno per l’effettiva erogazione della quota del cofinanziamento nazionale dei vecchi programmi 2007-13, rendendo così un po’ più difficile che si giunga alla scadenza del 31 dicembre 2015 con risorse di quei programmi non erogate e rendicontate e, quindi, tragicamente perdute.
Le azioni per lo sviluppo del Mezzogiorno appaiono orfane di una responsabilità politica, che sappia disegnare uno scenario, interrogarsi in misura tecnicamente approfondita sulle difficoltà, promuovere velocemente i necessari cambiamenti, ma anche rivendicare alle politiche pubbliche i risultati ottenuti: nelle dotazioni delle scuole e nel trasporto ferroviario locale, nell’ammodernamento degli aeroporti, nella tutela del territorio, nella promozione del turismo, nella difesa (se non nell’ampliamento) dell’apparato industriale.
Esse sono sostituite, invece, da una vulgata, quella dello spreco, che si inserisce in un filone interpretativo politico-antropologico tanto approssimativo e fallace quanto diffuso: che imputa le difficoltà dell’economia meridionale solo alla bassa qualità delle sue classi dirigenti, espressione a loro volta di una popolazione carente di cultura e capitale sociale; che vede nell’intervento pubblico il problema e non la possibile soluzione.
Chi è causa del suo mal pianga se stesso, quindi: pensi a migliorare le proprie amministrazioni e soprattutto la smetta di bussare a danari e di “intralciare il manovratore”. Ora, non vi è dubbio che la qualità delle classi dirigenti meridionali, politiche e tecniche, sia modesta e probabilmente inferiore a quella di dieci o quindici anni fa. Ma è invece assai discutibile che ciò sia un tratto immutabile, che deriva solo da aspetti culturalistici; e non invece, soprattutto, un effetto delle debolezze complessive dell’azione pubblica in Italia, così come del tramonto di molte idealità della politica. La spia di un malessere diffuso – pur a diversi gradi di intensità – nell’intero paese.
Spiace che un partito o un esecutivo possano quasi assumere questa debolezza come un dato; e non invece come uno sprone per interventi in sede tecnica, legislativa, amministrativa e soprattutto politica per mutarla.
La tesi dello spreco meridionale accompagna così la definitiva sparizione dall’agenda della politica dello sviluppo del Mezzogiorno come grande questione irrisolta della storia italiana; e il conseguente derubricare le grandi politiche di sviluppo a intricate e incomprensibili querelle tecniche o alla denuncia gridata di scandali. E, conseguentemente, la precedenza assegnata, nell’azione e negli investimenti necessari per far uscire l’Italia da questa difficilissima congiuntura, ad altri e più forti interessi.
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