La prima, primissima, sensazione che si ha leggendo “Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski” di Roberto Alfatti Appetiti è che l’autore oltre a scrivere bene è anche molto preparato sull’argomento. Felice si rivela la scelta di raccontare Bukowski utilizzando le parole dello stesso autore, che avvicina questa biografia a un’autobiografia. Scelta che riporta in vita, per trecentotrentadue pagine, uno scrittore che molti hanno amato e che molti continueranno ad amare. Per queste ragioni voglio accompagnarvi nella lettura nel disordine ordinato di uno dei più grandi talenti della letteratura mondiale. L’unica avvertenza è che se non sopportate l’odore della birra e non amate la musica classica vi conviene cambiare lettura.
La biografia, questa biografia, è l’opera letteraria di Charles Bukowski, costruita a partire dalle sue parole e dai suoi libri. Anche chi non ha mai letto Bukowski, si troverà a proprio agio, non resterà spiazzato, tantomeno si sentirà ignorante perché Alfatti Appetiti ti conduce, così come il maestro delle scuole elementari conduce il proprio alunno che deve imparare a leggere e scrivere, nel mondo letterario di Bukowski con semplicità e leggerezza. Dote rara che appartiene solo agli scrittori. Ai veri scrittori.
Fin dalle prime pagine Appetiti sgombra il campo da fraintendimenti e luoghi comuni e fa capire che l’intento di questa (auto)biografia è porre al centro della discussione la letteratura e non il gossip. Ovvero si gioca a carte scoperte e, dunque, il viaggio è consigliato a chi è abituato alla lettura per la lettura, alla letteratura per la letteratura.
«Ho creato l’immagine dell’eterno ubriacone da qualche parte nei miei lavori e dietro a questo c’è un minimo di verità. Eppure, mi sembra che il mio lavoro abbia espresso anche altro. Mi pare che affiori solo l’eterno ubriacone».
Non solo pop art dunque, ma, come leggeremo più avanti, parole su parole per capire e capirsi. Per esorcizzare le eterne e sempre uguali paure dell’uomo e per guardare avanti senza voltarsi o indugiare sul passato.
«Non mi piacevano i reading di poesia, l’ora del reading era la più terribile, ma significava sopravvivenza, come, per esempio, rubare in un negozio di liquori. Capii che il pubblico non era interessato alla poesia; era interessato al personaggio. Che aspetto aveva il poeta? Cosa succedeva dopo il reading? Assomiglia alle sue poesie? Cosa pensi di lui? Come se la caverà a letto?».
Da qui la volontà, estrema, di andare sempre controcorrente. Quello che piaceva ai più non poteva piacere ad Hank. La sua è una personale e continua lotta al sistema e all’omologazione: le persone valgono in quanto persone e in quanto singoli individui. Ognuno con il proprio carico di angosce, problemi, sogni e vita da vivere in prima persona.
Un approccio dunque disincantato alla vita privo di ogni forma di retorica. Una visione della vita e degli uomini che, molto probabilmente, ha mutuato dalle letture che hanno popolato la prima parte della sua vita. Infatti. prima di essere uno scrittore, Bukowski è stato un grande lettore e un raffinato intenditore di musica classica. Beethoven, Brahms, Mahler, Wagner i suoi compagni di vita preferiti che hanno contribuito a renderlo meno permeabile alle futilità della vita di tutti i giorni, esasperando, forse, la sua voglia di vivere piuttosto appartato.
Così come appartati dovrebbe essere gli scrittori, osservatori delle cose del mondo e degli uomini. Non gli piacevano i circoli letterari, tantomeno le lobby. La vita dello scrittore è più assimilabile a quella di un monaco che cerca, soprattutto, dentro di se le ragioni della fede. Lo scrittore, analogamente deve vivere in funzione della scrittura, non può vivere che così.
«Uno scrittore deve continuare a scrivere, a colpire nel segno, o si ritroverà nei bassifondi. E non c’è modo di risalire. Perché dopo qualche anno dedicato alla scrittura, l’anima, la persona, la creatura non riesce più a operare in nessun altro campo. È inutilizzabile. È uccello in terra di gatti. Non consiglio mai a nessuno di diventare scrittore, a meno che lo scrivere sia l’unica cosa che gli impedisca di impazzire. A quel punto, forse, ne vale la pena».
Non ha grandissima stima dei suoi colleghi, anzi in più occasioni non lesina stroncature o giudizi negativi anche su “mostri sacri” della letteratura. Ma è capace anche della più struggente delle dichiarazioni d’amore quando incontra, casualmente, sulla sua strada la scrittura di John Fante, autore dimenticato da tutti che proprio grazie all’intersesse di Hank conosce una nuova stagione di successi che dura ancora oggi.
«Aprii una pagina aspettandomi il solito, e invece le parole, sì, le parole mi saltarono addosso, proprio così. Balzarono dalla pagina e mi trapanarono. Le parole erano semplici, concise, e si riferivano a qualcosa che stava succedendo proprio allora!…Ogni pagina aveva forza. Non riuscivo a crederci. Mi pareva come se le parole potessero saltare fuori dal libro e iniziare a camminare in giro, o spiccare il volo. Avevano una forza straordinaria, erano completamente reali. Come mai quest’uomo non era mai stato citato da nessuna parte?…».
Il libro era “Ask the Dust”, “Chiedi alla polvere” nella traduzione italiana. La scrittura lineare di Fante è la “sua” scrittura, il modello a cui s’ispira e dal quale cerca di trarre il massimo degli insegnamenti.
«Mi lanciai verso la mia divinità personale: la semplicità. Se lo rendevi più conciso e più breve possibile, avevi meno possibilità d’incappare nell’errore e nella menzogna. La genialità stava anche nel saper esprimere concetti profondi in modo semplice. Le parole erano proiettili, le parole erano raggi di sole, le parole aprivano il varco della morte e della narrazione».
Semplicità e brevità dei concetti sono gli ingredienti che Roberto Alfatti Appettiti miscela con grande maestrìa per descrivere l’intera parabola umana e letteraria di Charles Bukowski senza mai cedere alla tentazione del sensazionalismo, tantomeno del “coup de théâtre”. Sembra di leggere Hank quando Appettiti asseconda l’idiosincrasia del nostro autore nei confronti del mondo contemporaneo.
Così come sembra essere Hank quando argomenta sul rapporto tra Bukowski e la politica. Tra Bukowski e i politici. C’è da imparare molto da entrambi, perché entrambi fanno della linearità, della chiarezza e della semplicità la loro cifra stilistica.
A differenza di Hank, Appettiti usa una punteggiatura diversa, soprattutto inizia la frase con la lettera maiuscola a differenza dello scrittore statunitense di origine tedesca, che utilizzava con grande frequenza i punti di sospensione ed era solito iniziare le frasi con la lettera minuscola.
Dal 9 marzo 1994, giorno della sua morte, in tanti nel mondo sognano di diventare il nuovo Charles Bukowski. Imitandone la scrittura e in certi casi anche lo stile di vita, non cogliendo, ovviamente, la natura più profonda del suo sentire.
«Per essere uno scrittore istintivamente fai ciò che nutre te e le parole, che ti protegge contro la morte in vita. Per ognuno è una cosa diversa. E per ognuno è una cosa che cambia. Per me una volta significava bere tantissimo, bere fino a uscire pazzo. Mi affilava le parole, le portava fuori. E avevo bisogno di pericolo. Avevo bisogno di mettermi in situazioni pericolose. Con gli uomini. Con le donne. Con le automobili. Con il gioco. Con la fame. Con qualsiasi cosa. Nutriva le parole. Per decenni è stato così. Ora è cambiato. Ora ho bisogno di qualcosa di più sottile, di più invisibile. È una sensazione nell’aria. Parole dette, parole sentite. Cose viste. Qualche bicchiere mi serve sempre. ma ora cerco le sfumature e le ombre».