E’ Natale anche a L’Aquila, il quinto post-terremoto. La foto che vedete è il Corso, la via principale del centro storico. Vuoto, come i nostri cuori. Con le luminarie: un doloroso paradosso.
E quest’anno, è anche il primo Natale nel quale ovunque si ascoltano parole che sanno di stanchezza. Nel supermercato (uno dei pochi luoghi di aggregazione), giorni fa, donne e uomini col carrello si dicevano stufi di lamentarsi e vivere l’ennesimo Natale nella tristezza: “Andrò via per le feste, dai miei parenti, in una piccola cittadina che però è viva”.
Dal parrucchiere, che dice di non aver avuto mai così pochi clienti sotto le feste, ognuno pare che si veda senza un futuro, se non via di qui. Molti studenti universitari aquilani, si affrettano con gli studi, per poter “finalmente” andare altrove.
Ma sono discorsi che senti e pensi sia solo un momento: è inverno, fa freddo, c’è la crisi. Vuoi credere che siano pensieri passeggeri.
Poi invece arrivano i dati: nelle scuole del capoluogo, scuole dell’infanzia, primarie e secondarie, si registrano 804 iscrizioni di meno rispetto al 2009. Circa 2500 persone, quindi, non abitano più a L’Aquila. Vivono altrove, anche se dai dati del censimento non si evince, dato che la residenza non risulta cambiata. Potrebbero essere molti di più: persone che hanno scelto di trasferirsi in altre città e cittadine abruzzesi, per avere una chance in più, per poter vivere in un luogo “normale”.
Un esodo destinato a crescere, perché a fronte dei miliardi arrivati per la fase dell’ emergenza e la prima fase della ricostruzione, nulla è stato fatto per attivare concrete politiche di sostegno al reddito, nulla per i giovani, né per le attività produttive in generale. Crescono i disoccupati e i precari, in questa non-città. Crescono le disillusioni, cresce la consapevolezza, cresce il desiderio di vivere normalmente la propria quotidianità.
E allora perché rimanere? Le speranze si affievoliscono, la vita è sempre più difficile sia economicamente che socialmente, la stanchezza prende il sopravvento, i centri storici distrutti sono divenuti l’emblema dell’inefficienza, le C.A.S.E., i MAP, i MUSP e tutte le altre assurde sigle continuano ad indicare che il terremoto è ancora qui: nella vita quotidiana, nelle scuole, nelle farmacie, nelle strade e persino nelle chiese. Il terremoto ci ha sfiancati.
L’affetto per la città è immutato: ma basterà?