Ero molto avido d’umanità. Quella che trasudava nei luoghi più impensabili ed intensi dell’esistenza. Come ad esempio una chiesa di un piccolo paese del Sud, alle cinque di mattina.
Credete che alle cinque sarebbe assurdo trovare in giro chi ha principiato la giornata? A parte chi lo fa per lavoro?
Eppure ciò accadeva nella chiesetta che frequentava mia nonna. E un pugno di vecchine, infagottate in abiti neri, col fazzoletto in testa nero e le scarpe nere, alle cinque del mattino, inondavano delle loro nenie scomposte le volte alte ed umide della vecchia costruzione. Fino ad intrufolarsi nelle canne d’un organo ormai muto da un secolo.
Che bello ascoltarle quelle vegliarde. Sembravano assenti, inanimate, robottizzate. Anche se poi leggevi nei loro volti scavati, una vita dolorosa.
Avevano amato? Odiato? Goduto? E compatito, rimproverato, assentito, comandato, picchiato, mangiato, bevuto?
Chissà. Ma vi assicuro che sentirsi in quel posto, a quell’ora, con quel tempo, con quei miasmi, con quelle toghe nere e quella polvere e quell’umidità, dava una sensazione anomalamente misteriosa. E la lancetta del tempo arretrava, proiettandoti in un mondo alle soglie della prima grande guerra, con l’Italia del Sud vittima dei baroni. Quei tromboni che sedevano in parlamento per diritto ereditario e che prolungavano il medioevo intessendo di sofferenza i loro coloni, che altro non avevano che quella messa per ritemprare l’animo. Sperando in una vita migliore nell’aldilà.
“L’acqua deve passare prima per il mio orto e poi arrivare alla fontana comunale! E se il mio orto beve e la esaurisce….pazienza!”
“E tu! Che bella fidanzata che hai! Che petto florido!….. Quando vi sposate falla venire al palazzo, ci voglio fa’ un regalo!”
“La carrozza dei Temogli e’ piu’ bella della nostra. Dobbiamo comprare altri cavalli. Quante sementi t’hanno portato quei figli di cagna?….Cheee? Su due ettari di terra solo 3 quintali? Dio li stramaledica! E io come ci vado a Napoli con una carrozza cosi’? Posso arrivare all’Excelsior in queste condizioni?”
“Ma padro’ quest’anno non ha piovuto. Mio figlio piccolo è morto con la terzana e per curarlo la mamma è stata a casa nu’ mese.”
“Quanta figli tien’ Anto’?”
“Sette padro’!”
“Allora nun t’ preoccupa’! Cu sta tribu’ la terra nun te la levo!”
“Grazie….grazie padrò. Dio vi benedica!”
Drin. Drin. Il prete sale sull’altare. Il suo passo è lento, sembra quasi essere ancora nel dormiveglia, tanto le sue palpebre sono cadenti.
E’ un vecchio dai radi capelli, bianchi e spettinati. Con una tonaca sudicia, frutto di rari lavaggi della perpetua.
E’ un prete semplice, fondamentalmente ignorante, ma per quelle donne e’ la parola di Dio. E tutto può dire con quella bocca, tanto nemmeno lo stanno a sentire. Infatti le sue prediche vertono su quattro argomenti, affrontati sempre con le stesse parole e gli stessi cenni. E quelle assentono con gli stessi gesti.
Era struggente la sensazione che provavo quando ero in quella chiesa, alle cinque di mattina. E con un occhio rigato da una lacrima cercavo lo sguardo di mia nonna. Lei, soave e riguardosa, era stata in quella chiesa per settant’anni , seduta in terza fila, dove si leggeva il cognome di suo padre.
Mia nonna non c’è più. E quelle vecchine si sono spente velocemente dopo di lei, una ad una. Come candele usurate, come la fede sbiadita dei loro figli e dei loro nipoti.
Sono tornato dopo vent’anni al mio paese. Cercavo quella chiesa del Sud e c’era un palazzo di cinque piani. E il vento non riusciva a spazzarlo via.
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