E’ morto Umberto Eco, l’intellettuale europeo più misterioso.
La sua straordinaria dimensione è percettibile da ciò che ha pensato, e ciò che ha pensato è minimamente percettibile in ciò che ha scritto.
Quindi, Eco, è più intuibile che razionalizzabile.
La sua passione per il segno e dunque la semiotica, è il tratto distintivo del suo carattere. Dove un piccolo tratto può contenere un universo di idee.
E così la storia medievale diviene un percorso obbligato. Perché il più oscuro e quindi misterioso. Ed in quanto tale, il più libero. Perché nell’oscurità alloca il senso del vuoto, da cui tutto può partorire.
Il labirinto è una delle figure metaforiche da lui preferite. Un mondo in cui perdersi.
Eco ha cercato di perdersi scientemente, per poi ritrovarsi e riemergere. Senza che il lettore che lo seguiva avesse la stessa sorte.
Romanziere per caso, è stato definito tale. Ma il romanzo è stato un mezzo per coinvolgere gli uomini nei suoi labirinti, nel suo destino, nel suo riemergere.
Eco era nella Cultura, e la scomponeva per poi ricomporla in tutte le forme. Tutto ciò lo faceva uscire dalla figura umana, entrando in un terreno trascendentale. E dunque inidentificabile.
Scrivere di Eco è difficile. Più facile è scrivere ciò che ha scritto Eco.
Ed ognuno lo ha percepito in base ai suoi strumenti di comprensione, al proprio taglio di cultura.
Eco poteva sembrare un tecnico del sapere, uno schematico, oppure un anarchico della logica, uno scopositore di sapere.
Egli è un vero mistero della cultura universale. Chi ne avrà la voglia potrà studiarlo e crescere intellettualmente. Ma rimarrà il rischio di trovarsi davanti ad una porta dove non vi è chiave. Riuscire a chiuderlo in una definizione o un perimetro è operazione impossibile.
Perché Eco era ed è un tratto. Un tratto che esprime un universo impenetrabile.
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