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Tributo a un eroe dimenticato, il generale Felice Caperdoni
24 Nov 2017 09:57

Una vita da soldato, quella vissuta dal generale Felice Caperdoni. E da bravo soldato. Una vita intensa, drammatica, ma esemplare, da farci un film. Una vita che dimostra quanto grande ed importante fu il contributo di sacrificio e di sangue versato dal Mezzogiorno, dai soldati italiani di stanza al Sud nel momento più difficile ed oscuro della Seconda Guerra Mondiale.
Nato nel 1889 a Bergamo, Felice Caperdoni si arruolò molto giovane nell’esercito come ufficiale. Non aveva neanche trent’anni quando prese parte alla Grande Guerra, con il grado di capitano. Per lui, tre medaglie al valore ed una ferita, rimediata in un’azione della Brigata “Macerata” sul fronte del Piave, a Castelnuovo.

Promosso tenente colonnello, partecipò alla Guerra di Libia, agli ordini del generale Rodolfo Graziani. Nella primavera del 1935, Felice Caperdoni venne ammesso agli “esperimenti” (una sorta di procedura concorsuale per il passaggio di grado) per la valutazione delle doti di comando.
La valutazione dev’essere stata positiva, se lo ritroviamo poi, nella Seconda Guerra Mondiale, con il grado di generale di brigata. All’inizio del conflitto, comanda i reparti preposti alla difesa costiera della Riviera di Ponente, in Liguria. Successivamente, viene trasferito al Comando del Presidio Militare di Foggia: un presidio importante, da cui dipendono ben 23 reparti, tra esercito, aviazione, carabinieri, finanza e vigili del fuoco.

Quando a Cassibile , l’8 settembre 1943, il capo del governo italiano Pietro Badoglio firma l’armistizio con gli Alleati, Caperdoni è nel suo ufficio, che ha sede nel palazzo della ex Banca d’Italia, dirimpetto al Municipio.
Diversi storici, a proposito dell’8 settembre, hanno parlato di “morte della Patria” ravvisando in quell’atto di resa la rottura di quel sentimento di unità nazionale che si era faticosamente sedimentato con il Risorgimento.
In realtà non è così. Se da un lato è vero che il “proclama” di Badoglio fece piombare l’esercito nel caos più totale, determinando l’insorgere di diffusi episodi di sbandamento e di diserzione, dall’altro si deve dire che i soldati italiani si resero protagonisti di grandi gesti di sacrificio ed abnegazione, proprio nel Mezzogiorno, teatro in quei giorni dell’operazione Avalanche, con le forze alleate che bombardavano le città dall’alto, mentre via terra avanzavano verso Napoli e Foggia, dopo lo sbarco di Salerno.
Li annota diligentemente Antonio Guerrieri nel suo libro La città spezzata, fondamentale per capire la tragica estate foggiana del 1943: “A Bari il generale Nicola Bellomo, comandante della piazza militare, resiste con le armi ai tedeschi che, però, abbandoneranno la città dopo soli 3 giorni.
Napoli si rivolta contro i tedeschi, che vi resteranno fino al 1° ottobre. A Salerno il generale Ferrante Gonzaga si rifiuta di consegnare le armi e viene falciato. A Potenza, il Comandante colonnello Faccin, vistosi sopraffatto, si uccide.”

Tributo a un erore di guerra

Tributo a un erore di guerra

Mentre il re e il suo governo scappavano da Roma, il Mezzogiorno resisteva.
A Foggia, il giorno dopo l’armistizio, la situazione è ancora più critica e più difficile che altrove. I tedeschi avevano reagito con sprezzante durezza alla notizia dell’armistizio ed erano diventati da un giorno all’altro gli occupatori, gli invasori.
Le forze in campo erano impari, e le prospettiva disperate, in quanto nel capoluogo dauno stavano per giungere anche le truppe tedesche in ritirata da Bari e dalla Calabria. I nazisti dettero vita ad un feroce saccheggio, per ritorsione verso quello che ritenevano un tradimento da parte italiana. Come se non bastasse, sulla città si abbatté l’ennesimo raid aereo alleato, che fece altre 21 vittime, che andarono a sommarsi alle migliaia di morti provocate dalle diverse ondate che si erano succedute da maggio ad agosto.
“I tedeschi – racconta Carlo Ruggiero su Avanti Daunia – irruppero nella città ed istintivamente fedeli alle tradizioni dei loro remoti progenitori e compiutamente esperti nella scienza della distruzione, incominciarono la demolizione oculata e razionale, fatta scientificamente, secondo i canoni diligentemente appresi nelle loro scuole di istruzione militare.

Dettero il guasto alle case ed agli edifici pubblici. Spezzarono frantumarono fracassarono. Inaridirono profondamente ogni sorgente di vita, le rovine, nere, fumarono nei cieli senza voce. Le case erano disfatte; dagli squarci enormi mostrarono le cose più care agli uomini: una culla, i vestiti di lavoro, il corredo della ragazza. La città era conclusa in un cerchio di silenzio invalicabile.”

Felice Caperdoni conosceva bene l’atrocità di quella tragica e interminabile estate foggiana. Solo qualche settimana prima, era scampato per un pelo alla violenza dei bombardamenti: il 22 luglio del 1943, era rimasto intrappolato tra macerie provocate dal crollo parziale del rifugio della Prefettura ed era stato tratto in salvo da padre Odorico Tempesta, il frate francescano che si prodigò in modo eroico, per alleviare le sofferenze della popolazione.
Quel 9 settembre, di fronte all’ultimatum dei nazisti, il generale si trova di fronte ad una scelta drammatica. Come scriverà qualche anno dopo La Stampa, “l’8 settembre a tarda sera, il generale aveva appreso la notizia che il governo italiano aveva concluso l’armistizio con gli alleati, e per telegramma aveva ricevuto l’ordine di difendere la città contro i tedeschi, quando costoro si erano già impossessati dei punti strategici. Avrebbe potuto tentare una lotta senza speranza facendo uccidere inutilmente molti soldati, oppure arrendersi prigioniero: preferì darsi la morte”.
Quando i nazisti gli intimano la resa, non può fare altro che impartire ai suoi uomini l’odine di consegnare le armi: “In considerazione della situazione venutasi a creare ordino che le armi tutte senza eccezione siano deposte in un piazzale antistante all’accantonamento e consegnate alle truppe tedesche”. Egli stesso ritiene però di doversi sottrarre a quell’ordine, che sa di resa incondizionata, di disonore.

Così, mentre le truppe naziste lo accerchiano, davanti al Palazzo della Banca d’Italia, il generale approfitta di un momento di disattenzione, ritorna nell’androne, estrae la pistola d’ordinanza e si spara un colpo alla tempia.
La notizia di quel gesto eroico si sparge rapidamente in città, e convince altri militari a disobbedire all’ordine di consegna delle armi. Come il brigadiere dei Vigili del Fuoco, Ignazio D’Addedda, cui il dispaccio viene recapitato assieme alla notizia del tentato suicidio del generale.

Come riferisce su “Il provinciale”, l’Associazione Nazionale dei Vigili del Fuoco, “il Brig. d’Addedda, orgoglioso dei suoi trascorsi militari nell’Arma dei CC. e di aver giurato fedeltà alla Patria, ritiene di non ottemperare a quell’ordine che appare imposto e tanto proprio in considerazione della notizia giuntagli nello stesso giorno che il Gen. Caperdoni si è sparato alla tempia, oppresso dal suo travaglio interiore.”
Il sottufficiale verrà fatto prigioniero dai tedeschi, assieme ai suoi uomini, e verrà rinchiuso nell’aeroporto Lisa, da cui riuscirà rocambolescamente ad evadere. Sarà d’Addedda, diversi anni dopo, a rintracciare nell’archivio della Wehrmacht, a Friburgo di Brisgovia, il documento originale dell’ordine di resa che vedete nell’immagine qui a fianco, pubblicato da Alberto Mangano nel suo sito, Orgoglio Foggiano.

E Caperdoni? Il colpo che il generale si era sparato alla tempia non è mortale. Il proiettile attraversa la scatola cranica, fuoriuscendo dalla parte opposta. Soccorso dagli stessi tedeschi il generale viene portato in ospedale, dove sarà curato prima dagli ufficiali medici tedeschi, e successivamente da quelli americani. Ma il colpo gli recide il nervo ottico, procurandogli una cecità che lo accompagnerà per tutta la vita.
Collocato a riposo alla fine della guerra, si stabilisce a Montù Beccaria, sulle colline dell’Oltrepò pavese, nell’abitazione della moglie Lina. È qui che, una decina d’anni dopo, il generale ripeterà il suo gesto suicida.
Sono passate da poco le 17 del 13 aprile del 1955, quando la signora Lina e sua sorella Lorenzina sentono il rumore di uno sparo provenire dallo studio del generale. Accorrono e lo trovano rantolante.

L’episodio suscitò un certo scalpore. Ne parlarono il Corriere della Sera e La Stampa, che attribuì il gesto disperato “ad una crisi di malinconia depressiva favorita dal diabete che da alcuni anni lo tormentava”.
Così il quotidiano torinese tratteggia lo sfortunato generale, il cui sacrificio aveva contribuito a salvare diverse vite umane, dodici anni prima, a Foggia. “Di media statura, tarchiato, i capelli bianchi, il volto rotondo sul quale spiccavano i grossi occhiali neri, amava passeggiare per le strade fuori dell’abitato. A Montù risiedono parecchi suoi ex soldati e con essi e con il maresciallo e l’appuntato dei carabinieri si intratteneva a discorrere del passato. I suoi ricordi si erano fermati a Foggia, al tragico settembre del ’43”.
E Foggia dovrebbe essere grata a quest’uomo generoso e sfortunato, a questo eroe mesto e silenzioso, cui non è stata dedicata neanche una strada, restituendogli dignità, memoria, onore, per un gesto che salvò tante vite umane.


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