Non sempre accade, anzi, ad essere sincera, quasi mai. La bellezza non sono le parole che attraversano la nostra vita, ma le scie che lasciano una volta che sono state pronunciate.
È molto raro che arrivino emozioni forti nello svolgimento di un’intervista, eppure questa volta è accaduto.
Penso questo mentre faccio l’intervista a Cinzia Storari, una donna tenace e sensibile, realistica ma anche incredibilmente sognatrice, di ferrea dolcezza. Titolore della Sycamore T Company, sta producendo due spettacoli teatrali fortemente moderni. “Per un istante” è una commedia divertente, ma con tinte amare, molto realistica che porta lo spettatore a riflettere sulla complessità dell’amore visto dal punto di vista maschile. Andrà in scena dal 24 al 26 febbraio di questo mese allo Spazio Diamante di Roma con tre giovani ma bravissimi attori. Continua anche la tournèe di “Aspettando Godot” in cui, oltre a prevalere la grande potenza del testo di Beckett, emerge uno dei grandi enigmi dell’uomo, ovvero l’attesa di qualcosa che non si sa, di qualcuno che non arriva, in un tempo senza confini scandito da pause e da dialoghi che conducono lo spettatore in una favola amara eppur incredibilmente vitale. Con Cinzia abbiamo parlato di ricordi, di quello che sta accadendo intorno a noi e di emozioni, oltre che del complesso e affascinante mondo del teatro, in cui non esiste differenza tra vita e palcoscenico, ma in cui deve arrivare la bellezza di esserci. E oggi, esserci è il dono più grande che possa fare la magia della sensibilità.
Chi è Cinzia Storari oggi?
È una donna realizzata e felicemente sposata con un uomo che l’ama moltissimo, se ne prende cura, sposa le sue ambizioni e gli sta accanto anche in periodi non sempre così rosei. E’ circondata da amici che le vogliono bene che sono una bella compagine che va a sostituire la famiglia che non ha più. Dal punto di vista professionale, vive vite sovrapposte; da una parte è amministratrice di teatri e consulente del lavoro, dall’altra è produttrice. Oggi come oggi, trova che fare produzione teatrale non abbia più senso perché purtroppo l’Italia sta andando rapidamente alla deriva; o le cose cambiano facendo in modo di essere sostenuti da aziende private e da Comuni in maniera fattiva e non assistenziale, avere cioè sponsor che possono detrarre dalle tasse i soldi che danno per la cultura oppure purtroppo si rischia di rimetterci troppi soldi. In questo periodo, a Roma investire non ha più molto senso; stanno chiudendo spazi molto importanti come per esempio il Teatro dell’Orologio perché dietro ovviamente ci sono movimenti politici che ancora noi non riusciamo a vedere che cercano però di avere un’egemonia di un certo tipo. Questo tipo di dinamica non le interessa, né ora né mai, non ne ha mai fatto parte e ne è serenamente orgogliosa.
Com’è nata la passione per il teatro e cos’è per te?
Posso dirti che ho avuto una madre molto particolare perché non riteneva che i bambini dovessero andare a dormire alle 21 dopo Carosello. Un po’ perché eravamo sempre sole dato che mio padre lavorava di notte e un po’ perché riteneva che i bambini non fossero tali, bensì già delle persone adulte (e devo ammettere che in questo era molto avanti), mi ha sempre fatto vedere cosa trasmetteva il piccolo schermo. Oggi è una consuetudine ma, in quegli anni, posso assicurarti che non era così. Ho sempre guardato di tutto, dai grandi sceneggiati ai varietà, oltre che film abbastanza scioccanti per una bambina di sette anni, passando anche per il teatro. C’erano infatti alcuni dei più grandi attori di allora che registravano la propria pièce teatrale per la televisione ed era bellissimo essere incollati alla tv il venerdì sera; il mio amore per Shakespeare è nato proprio così, guardando “Romeo e Giulietta” di Zeffirelli registrato al Teatro Romano di Verona con Giannini e la Guarnieri. Sono stata poi per tanti anni un’assidua frequentatrice dei teatri e nel 1996 ho creato una pagina blog dal nome “Bardolatry.it” per tutti gli appassionati di Shakespeare intervistando molti attori. Ho così cominciato a vedere, oltre che la magia e l’incanto, anche tutte quelle che potevano essere le problematiche che stavano dietro.
Nel 2006 hai fondato la Sycamore T Company. Perché fondarla?
Innanzitutto il panorama teatrale di allora era ben diverso da quello attuale; sembrava che ci fosse ancora spazio per piccole compagnie professioniste. La Sycamore è nata per realizzare sogni, per essere un trampolino di lancio per alcune piccole realtà che ci sono state a Roma come Tamara Bartolini e Michele Baronio, anche per coloro che volevano scrivere per il teatro pur essendo attori, per coloro che facevano parte di questo mondo ma che non riuscivano a portare in scena le loro opere. Devo ammettere che sono molto soddisfatta del percorso fatto fino ad ora, gli spettacoli sono sempre stati davvero molto belli, ho lavorato con persone stupende come Giovanni Anzaldo, Caterina Gramaglia, Georgia Lepore e molti altri. Posso dirti che sono vari gli artisti che mi hanno riempito di soddisfazioni come il mio compagno di viaggio veronese Solimano Pontarollo, ma ci sono anche altri che mi hanno deluso, oltre che approfittarsi di determinate situazioni.
Dal 24 al 26 febbraio andrà in scena “Per un istante” allo Spazio Diamante a Roma. Com’è nato questo progetto teatrale? Perché proprio questo titolo?
“Per un istante” è un progetto che nasce da un gruppo di persone che stimo e questo mi ha portato a realizzarlo. Nel 2014 ho conosciuto Michele Cesari, mi è sempre piaciuta la serietà con la quale si approccia a questo mestiere, oltre che il suo talento, precisione e puntualità come caratteristiche che nell’ambiente dello spettacolo non vengono sempre riconosciute. Viene sempre considerato un attore di fiction ma il suo meglio lo dà sul palcoscenico risplendendo di luce propria. Esattamente un anno dopo, mi ha proposto il progetto che aveva con due amici, quali Gian Piero Rotoli e Marco Palange. Il racconto teatrale si sviluppa seguendo la storia di tre ragazzi che vivono insieme e hanno esperienze amorose che lasciano il segno, il tutto narrato attraverso il punto di vista maschile. E’ proprio per quest’ultima caratteristica che mi ha colpito il testo scritto da tutti e tre; infatti siamo soliti vedere le delusioni amorose quasi sempre dal punto di vista femminile, molto meno da quello maschile. E’ una storia teatrale molto carina, di quella freschezza di cui abbiamo sempre bisogno e che mi auguro porti molte persone a teatro. Ho affidato “Per un istante” ad Emanuela Liverani e ad Alessandro Averone, due carissimi amici, oltre che due eccellenti professionisti che hanno dato un’impronta maieutica al progetto.
La commedia portata in scena è molto piacevole ma allo stesso tempo fortemente realistica perché tratta di un tema che, in un modo o nell’altro, riguarda ognuno noi, ovvero l’amore. Cos’è e cosa rappresenta per te?
L’amore non è soltanto passione e divertimento, bensì molto di più; è avere qualcosa in comune, camminare insieme, proteggersi a vicenda, aiutarsi, avere lo stesso progetto di vita con la voglia di crescere insieme.
Dal 24 al 29 gennaio scorso è anche andato in scena “Aspettando Godot” presso il Teatro Dei Conciatori sempre nella Capitale ma la tournèe continua. Sono in molti ad aver portato sul palcoscenico dei più grandi teatri del mondo quest’opera. Cosa ha spinto la Sycamore T Company a produrre questo spettacolo?
Beh, Alessandro Averone! È uno dei miei amici più cari, lo conosco da tredici anni e seguo il suo percorso teatrale da allora. E’ sempre stata una grande soddisfazione per me vederlo crescere, affinare sempre più il suo talento, diventare un grandissimo attore e veder sbocciare la sua grande capacità di regista a Parma. Quando ho avuto la possibilità di avere un periodo di tempo al Teatro Dei Conciatori per sviluppare un progetto, mi sono subito rivolta ad Alessandro che immediatamente mi ha proposto “Aspettando Godot” di Beckett. Per quanto quest’ “impresa” fosse da folli, non potevo far altro che acconsentire perché c’era quella giusta complicità che sicuramente ci avrebbe permesso di realizzare quest’opera teatrale. Credo che Alessandro abbia messo in scena uno degli spettacoli più belli che girano in questo momento in Italia, realizzandolo con pochissimi soldi (dimostrando che con pochi fondi si possono fare grandi rappresentazioni), portando sul palco attori fantastici e comprendendo in maniera assoluta la bellezza del testo del drammaturgo irlandese.
“Aspettando Godot” è sicuramente uno tra i testi più famosi del teatro dell’assurdo. Qual è il vero fascino di Beckett? In cosa consiste la sua modernità?
La sua modernità consiste nella sensazione di vuoto, di futilità della vita e d’attesa perenne di ognuno di noi per qualcosa, il cercare di risolvere il tempo cercando di trovare qualcosa per cui vivere. La vita viene vista come un’angoscia che però può essere sollevata, oltre che da un sorriso e una risata, dal volersi bene percorrendo insieme un percorso. Credo sia proprio questo il paradigma della nostra esistenza attuale. Molto spesso ci troviamo in momenti della nostra vita in cui non accade niente o sta accadendo tutto, in cui tutto è stato distrutto o tutto è già costruito; non possiamo saperlo. Ci illudiamo che le cose possano cambiare e rimaniamo in attesa di qualcosa che non sappiamo neanche cos’è.
Vladimiro ed Estragone, i due personaggi principali, sono in attesa di un certo signor Godot. L’attesa è proprio uno degli enigmi della vita dell’uomo. Per te?
Io ora non sono più in attesa, ma posso dirti che mi è capitato in passato di aspettare qualcosa nella speranza che arrivasse, non per me, ma per altri. Quello che aspettano Didi e Godo è qualcuno che li salvi, io no. Sono consapevole che mi devo salvare da sola anche se ritengo che ci sia qualche cosa che unisca il mondo materiale a quello spirituale.
Stai anche girando corti shakespeariani. Di questo terzo progetto cosa ci dici?
Sono delle piccole perle curate nel dettaglio, basate soprattutto sulla bravura degli attori. In questo progetto, sono affiancata da Antonia Bernardini, grandissima regista che ha scelto di vivere in Inghilterra, una delle migliori allieve di Andrea Camilleri che riesce ad unire il meglio del teatro italiano e di quello inglese. Sa tradurre i testi di Shakespeare con quella musicalità che è presente nelle opere del drammaturgo inglese. Attualmente stiamo lavorando su “Amleto”, “Riccardo II” e “Sogno di una notte di mezza estate”. Oltre ad Antonia, mi sta aiutando Alberto Basaluzzo e fanno parte di questo progetto Michele Cesari, Alessandro Averone e Sandro Toffolatti. La bellezza di questi corti sarà contenuto nell’arco di massimo tre minuti di realizzazione che verranno poi inseriti all’interno di un programma televisivo di cui per ora non posso dire nulla per scaramanzia.
William Shakespeare affermava che tutto il mondo fosse un teatro e che ognuno di noi fosse un attore perché ogni singola persona ha le sue entrate, le sue uscite ed una stessa persona rappresenta diverse parti nella sua vita. Sei d’accordo?
Sono sempre d’accordo con Shakespeare. Nel corso della nostra vita interpretiamo tantissimi ruoli, abbiamo le nostre entrate e le nostre uscite. Oggi come oggi abbiamo molto tempo da perdere e vite spesso molto lunghe da gestire, ecco quindi che le parti da interpretare sono tantissime.
Per quali motivi i giovani dovrebbero venire a teatro? Cosa lascia allo spettatore il teatro?
Il teatro è magia e mistero. È catartico, è vivo e vero nel momento in cui accade; riesce, attraverso l’emozione, a far emergere non solo la gioia ma anche la sofferenza che proviamo nella nostra esistenza. Purtroppo oggi i giovani hanno un’eccessiva idolatria delle immagini tanto da percepire le persone solo attraverso fotografie e video; mentre invece esistono, sono reali, hanno i loro pregi e difetti, sono carne, sangue e una miriade di sfumature emotive. I giovani dovrebbero andare a teatro per cogliere tutti quegli aspetti che il piccolo e grande schermo non regalano, un trasporto di emozioni allo stato puro, per afferrare, oltre che comprendere la veridicità della recitazione, anche gli errori e le mancanze di un attore sul palcoscenico. Il teatro è amare un attore, sostenendolo ma anche rispettando la sua privacy, è vedere vivere una persona nei suoi panni e non soltanto un’immagine che può forviare la realtà.
Quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud. Che rapporto hai con la parola Sud?
Mio padre era di Ferrara, mentre mia madre era per metà veneta e per metà siciliana. Per me il Sud non è una parola, bensì un modo di essere che fa parte della mia vita. E’ un modo di concepire l’accoglienza e il benvenuto in casa, un modo di cucinare in cui il cibo risulta essere una festa dei sensi, è il senso della famiglia ed è la bellezza di certi luoghi, dalla natura all’arte. Se dovessi darti un’immagine, il Sud per me è il mare azzurro davanti ad Erice e le tombe fenicie in riva al mare.
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