“I diritti delle donne sono una responsabilità di tutto il genere umano. Lottare contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne è un obbligo dell’umanità. Il rafforzamento del potere di azione delle donne significa il progresso di tutta l’umanità”.
Le parole di Kofi Hannan, ex Segretario generale delle Nazioni Unite, nell’ammirare gli artistici scatti fotografici della mostra “Signa – Storie di donne”, potrebbero far risuonare le intime corde emozionali dell’anima e provocare inattese reazioni. Le 36 foto della mostra – allestita dal curatore Pio Meledandri ed ospitata nell’atrio dell’ex Palazzo delle Poste nel cuore urbano di Bari dall’11 al 18 gennaio – rivelano, infatti, non solo “la banalità del male” perpetrata dagli uomini, ma anche la “crudeltà sociale” di un sistema comunitario che sembra sia oggi deficitario nei suoi anticorpi culturali e morali.
Per molti anni è stato il Direttore del Museo della Fotografia del Politecnico di Bari, che ha visto nascere e affermarsi per la bontà e la qualità delle cangianti iniziative proposte. Oggi è il presidente dell’associazione Sviluppo Sostenibile. Come è nata e quali erano le finalità di questa esposizione fotografica?
Troppi femminicidi, sfregi, stupri, violenze di ogni genere. La nostra è una società che non vuole prendersi le proprie responsabilità. Io credo che dobbiamo condividere il dramma in maniera sentita e forte ed è necessario che di questi fenomeni se ne parli non soltanto come episodi di cronaca nera. La mia intenzione era quella di mettere il pubblico davanti ad immagini forti anche se costruite in studio. La finzione scenica, a volte, può risultare più efficace della realtà Una delle frasi ricorrenti che ho sentito dal pubblico soprattutto femminile è: “Può accadere a chiunque”.
Come ha individuato le protagoniste delle sue foto? Quanto può essere importante lo strumento della fotografia per veicolare messaggi importanti come l’uguaglianza di genere contro ogni forma di violenza?
Ho cominciato a parlare del mio progetto a settembre scorso con le persone a me più vicine ed ho riscontrato subito molto entusiasmo per questo tema che le donne vivono in maniera preoccupata, se non addirittura angosciata. L’immagine, perciò, è uno strumento dirompente, come avevano ben individuato Saussure e Roland Barthes sin dagli anni ’50. L’immagine rientra nel sistema di assuefazione del potere. Sta a noi, pertanto, saper utilizzare il veicolo visivo in maniera appropriata, per svegliare le coscienze.
Qual è da sempre il linguaggio della fotografia? Quale emozione vorrebbe restasse a chi osserva un suo scatto?
Da giovane mi piaceva il reportage e la fotografia sociale. Poi mi sono cimentato un po’ in tutti i generi, dalla fotografia al microscopio a quella archeologica, dallo still life al paesaggio urbano e architettonico. Ora sentivo il bisogno di sensibilizzare quanta più gente possibile sul tema della violenza contro le Donne. Le prime ad essere scioccate dall’immagine della violenza sono state proprio le 12 modelle, poi credo anche il pubblico.
Anche in questo caso la condivisione conta moltissimo. Il Museo della Fotografia ha svolto un ruolo guida fondamentale in questi dieci anni. Abbiamo saputo traslare anche sui social network teorie e visioni che hanno favorito il coinvolgimento di massa. Da poco sono presidente di un’Associazione no profit, Sviluppo Sostenibile, che ha tra le linee guida l’ambiente, la cultura, la comunicazione visiva, il sociale. Tra i soci, in aumento, vedo entusiasmo e coesione. Il nostro progetto è quello di coinvolgere un ampio numero di persone su questi temi.
Dopo il grande successo di questa ultima esposizione, quali saranno i suoi prossimi appuntamenti o desideri?
Grazie per questa analisi, ma senza falsa modestia devo dire che è andata al di là di ogni più rosea previsione. Il vernissage ha visto, nonostante le condizioni meteo molto avverse nei giorni scorsi, grande partecipazione e notevole interesse. Forse perché non è solo fotografia. Per il futuro prossimo, infine, sto già lavorando a nuovi e progetti che hanno tutti in comune l’umiltà di voler cercare di indagare la complessità sociale contemporanea.