Stop alle zone ‘franche’ per gli stalker in attesa di giudizio: da oggi non possono più passeggiare ovunque o entrare a piacimento nei posti pubblici – ad esclusione degli indirizzi off limits, come la casa della ex e il suo posto di lavoro – ma devono andarsene, e subito, da ogni luogo in cui ci sia, o faccia la sua comparsa, anche la ‘lei’ alla quale non perdonano di averli mollati. Lo ha deciso la Cassazione aprendo uno scudo protettivo ‘totale’ a difesa delle donne che denunciano per atti persecutori gli uomini che rendono la loro vita impossibile e rischiosa.
Contrariamente a precedenti pronunce, i supremi giudici della Quinta sezione penale hanno stabilito – con la sentenza 36887 – che la tutela delle vittime, intanto che la giustizia lumaca fa il suo corso, deve prevalere sulle esigenze garantiste dei presunti stalker. Dunque i giudici, nei “divieti di avvicinamento ai luoghi frequentati” dalle donne che chiedono protezione, non devono più specificare meticolosamente – pena l’esclusione dalla tutela – i luoghi frequentati dalle vittime e dai quali si devono tenere alla larga i ‘diffidati’. Perché sono le donne “vittimizzate” che devono essere libere di andare dove vogliono senza che la loro vita sociale sia limitata ai percorsi sicuri. È invece chi è sospettato di stalking che deve farsi indietro senza obiezioni sulla compressione della sua libertà di movimento. I divieti di avvicinamento, ricorda la Cassazione, sono pur sempre degli “atti coercitivi”.
Con questa decisione, la Cassazione ha convalidato lo ‘scudo’ che i magistrati di Lecce – con ordinanza emessa dal Tribunale del riesame il 20 luglio 2012 – hanno aperto a difesa di una ex moglie e delle figlie di un marito separato, Maurizio A. di 33 anni, accusato di stalker e maltrattamenti e per questo finito agli arresti domiciliari dopo una iniziale permanenza in carcere di circa un anno. L’uomo aveva in seguito ottenuto la sostituzione dei domiciliari con la misura cautelare del divieto di avvicinarsi a tutti i luoghi frequentati dalla moglie e dalle figlie – con le quali aveva recuperato un rapporto sotto la sorveglianza dei servizi sociali – compreso il divieto di comunicare con la ex o con i familiari con lei conviventi “neppure mediante squilli telefonici o clacson”.
Con ricorso alla Suprema Corte, il legale dell’uomo, l’avvocato Francesca Conte, ha protestato contro la genericità del divieto poiché i luoghi ‘vietati’ al suo cliente non erano “espressamente indicati”.
Tesi non condivisa dalla Quinta sezione penale – presidente Gaetanino Zecca, relatore Paolo Micheli – che ha scritto nero su bianco che una simile “predeterminazione sarebbe una inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce il precipuo oggetto di tutela” dallo stalking. Dato il contrasto sugli orientamenti, la Procura della Suprema Corte – rappresentata da Gioacchino Izzo – aveva chiesto che fossero le Sezioni Unite a dirimerlo. Ma non ce ne è stato bisogno.
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