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South Working in Alto Molise: “Non avete più scuse, ora potete anche tornare”
04 Set 2020 10:39

Fine serata. Io e le mie amiche siamo seduti a un tavolo di plastica, in un bar del paese accanto al mio. In Alto Molise, anche se è agosto fa freschino e tutti abbiamo messo il giubbino. Sono le due e si è alzato il tipico venticello che ti accarezza e quasi ti culla. Perfetto per dormire! Noi però continuiamo a parlare con l’ultimo arrivato. Sul tavolo, gli ultimi avanzi di un limoncello, un posacenere sporco. Il bar è semivuoto, tutti sono tornati a casa, o quasi. Insomma è l’atmosfera perfetta per fare quattro chiacchiere.

“Tu che fai, Già” chiede il ragazzo a una delle mie amiche. Lei risponde e gli spiega che fa la consulente in un’azienda. Lavora a partita iva e impiega tipo due ore per andare da Tiburtina alla sede dell’azienda. Poi tocca ad Anna che lavora per una SPA e, praticamente, ora, dopo anni, comincia a trovare pace. Quindi si passa a Ida che è rimasta a casa, in provincia, come me. Ida si divide tra un paio di lavori e un esame di stato che pare un parto (quest’anno ci hanno messo più i risultati ad uscire che io ad arrivare alla fatidica fase del “mi manca un esame e la tesi”. Il che è tutto dire!).

Ci vuole un attimo, prima che la conversazione volga al “Roma è un incubo. Se non c’hai la macchina non vivi. E se ce l’hai devi accollarti le spese del garage”. Si parla di motorini e del timore di smuoversi sul GRA sulle due ruote, dei mezzi fatiscenti, della complessità della città eterna che, praticamente, ti risucchia eliminando ogni straccio di vita privata.

Io, provo a intervenire, ma faccio la figura del provincialotto. La serata finisce e guidando verso casa una voce continua risuonarmi in testa. Anzi: grida! Non posso non zittirla, non posso ripulirla o renderla meno volgare: ma se in città ci state così male, che ci rimanete a fare?

Sì. Io ho vissuto in città, anche se per poco, ma, poi, a un certo punto mi sono detto che non ne valeva la pena, che non volevo più costringermi a una vita fatta di costanti ritardi, di attese, di tempo sprecato in una ruga della metro B, regalando 0,25 centesimi al minuto a una multinazionale del petrolio, su una 500 rossa. Roma è stupenda, è spettacolare, ma, parliamone: siamo sicuri che il mito della grande città rispecchi davvero le nostre aspettative?

Uhm… Non credo nelle risposte secche, univoche perciò direi che dipende da ciò che fai o vuoi fare. In linea generale però tenderei a dire che in paese si vive meglio e con poco.

Come mi piace ripetere con i miei amici, io sono una partita iva semplice: lavoro, fatturo, accantono le tasse e cerco di farmi passare qualche sfizio. Risparmio, ma vado in palestra, compro un sacco su Amazon, viaggio. Io, in paese, faccio la bella vita, devo essere onesto. Tuttavia, a essere sinceri, credo che sull’Appennino, o comunque nei piccoli centri, tutti possano fare la bella vita. Ammesso che lavorino, certo.

È qui però che viene il nodo gordiano della faccenda: è necessario stare in città per lavorare? Dai, ancora crediamo a questa leggenda metropolitana? Ok, ci sono un sacco di impieghi che possono essere svolti solo nei palazzoni dell’Eur o, che so, del centro Direzionale a Napoli o vicino l’Isola a Milano, ma ce ne sono molti altri che possiamo portare a termine da remoto.

A dirlo non sono io, innamorato delle montagne del Molise e del mio borgo, ma numeri e statistiche. Ne cito qualcuno, giusto per: stando a uno studio dell’Osservatorio del Polimi, per esempio, pare che lo smart working abbia avuto un incremento del 20% in confronto al 2018 (Vita riporta qualche cifra). Ancora, stando alle pagine del Corriere della Sera, per il 77% dei manager che stanno adottando queste pratiche, il lavoro intelligente non intaccherebbe la produttività dei team, ma, anzi, la accresce. Per il 66% degli intervistati, addirittura, permette di organizzare meglio l’agenda e gestire la giornata in modo più efficiente. Qualche esempio? HuffPost ha raccontato tra le sue pagine diverse storie di South Working: vite vissute al Sud, tra le bellezze del mare stupendo e del costo della vita ridotto, pur lavorando per la europeissima Milano.

La domanda allora sorge spontanea. Se ci stai male, che diavolo ci fate nelle vostre inquinate, rumorose e incasinate città, quando con ogni probabilità avrete una seconda casa in uno dei tantissimi paesi italiani?

È veramente vita questa? È davvero quello per cui avete sudato, studiato tanto? Onestamente fatico a credere che quando avete finito le superiori e avete cominciato l’università, avete cercato lavoro, lo avete fatto con l’obiettivo di lavorare 8 ore al giorno, passando due ore nel traffico, per poi arrivare a fine mese con un risparmio di qualche centinaio di euro (se tutto va bene).

Ripeto: sarò di parte, ma, nel mio piccolo, lavoro, esco, faccio aperitivo, ceno fuori ogni settimana, pratico sport e, sì, quando ho voglia, organizzo un bel week-end e vado a perdermi nella bellezza del Colosseo o tra i sanpietrini di Roma. Non voglio dire che la mia scelta sia definitiva, questa non è una campagna mendace che serve a raccontarvi che nell’entroterra sia tutto bello e perfetto. Al contrario! Qui, in provincia, ci sono disservizi, un assetto stradario che spesso è inefficiente e carenza di mezzi pubblici, ma non ricordo che i mezzi Atac fossero messi così bene. La differenza? Semplice: che qui vivere mi costa un terzo. Lo ammetto: finora abito in casa con i miei, ma nei miei progetti c’è proprio un trasloco in uno spazio tutto mio.

Ragazzi, ragazze, coetanei e non, per farla breve quello che sto cercando di dire è questo: i paesi non sono l’utopia, ma ci si vive benissimo. Onestamente non so se resterò per sempre qui, tuttavia è ora che capiate una cosa: tra gli unici effetti positivi di questa pandemia, c’è la scoperta di un nuovo modo di vivere, la definizione di nuove geografie. È ora che puoi approfittare di questo cambiamento, sperimentare una nuova esperienza. Puoi scegliere! Ecco è ora che capiamo che se volete tornare, se volete vivere in una cittadina potete farlo. È ora che vi rendiate conto che un paese ci vuole. E non solo per il gusto di andarsene via.


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