C’è chi storcerà il naso ma da oggi, almeno in Sardegna, declinare o meno i nomi istituzionali al femminile non è più una scelta ma un obbligo. Lo ha stabilito infatti un articolo dedicato allo sviluppo delle politiche di genere e alla revisione del linguaggio amministrativo, all’interno della legge sulla semplificazione appena approvata.
Non si dovrà più dire o scrivere “sindaco” riferendosi a una donna ma “sindaca”. Identica cosa per “consigliera”, “prefetta”, “assessora” e “commissaria”. Una decisione approvata anche dalla professoressa Cecilia Robustelli dell’Accademia della Crusca che, per complimentarsi, ha chiamato la consigliera e autrice dell’emendamento passato in Consiglio regionale, Annamaria Busia del Centro democratico, affermata avvocata penalista.
Il nuovo corso era stato per certi aspetti inaugurato da Virginia Raggi che appena insediata in Campidoglio aveva detto a gran voce “Chiamatemi ‘sindaca’”. Ma il linguaggio di genere è entrato a tutti gli effetti nell’agenda politica soprattutto grazie alla presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha sempre affermato che identificare la professione o il ruolo di una donna utilizzando il termine al maschile è un mancato riconoscimento e anche una forma di discriminazione.
L’amministrazione avrà sei mesi di tempo per “adottare «un linguaggio non discriminante rispettoso dell’identità di genere, mediante l’identificazione sia del soggetto femminile che del soggetto maschile negli atti amministrativi, nella corrispondenza e nella denominazione di incarichi, di funzioni politiche e amministrative”.