L’Italia è strangolata dal debito pubblico e dagli interessi. In pochi anni abbiamo dovuto restituire ai nostri creditori migliaia di miliardi di interessi passivi: 3.000 negli ultimi trenta anni e poco meno di 1.000 solo negli ultimi dieci anni.
Il grave è che, nonostante questa massa mostruosa di denaro pagata nel corso del tempo dai contribuenti italiani, il debito pubblico continua a crescere; in larghissima parte proprio a causa degli interessi, che il prossimo anno potrebbero sfondare quota 100 miliardi. Fin qui qualcuno potrebbe dire “nulla di nuovo”.
E farebbe bene, perché le vere novità sono altre: sono le altre cambiali che abbiamo firmato e che ci obbligheranno, nel breve, nel medio e nel lungo periodo, a tirare fuori un’altra montagna di denaro. Solo per tenere i conti in pareggio, come ormai imporrebbe la nostra Costituzione, servirà qualche decina di miliardi di euro; per il MES (il c.d. Fondo Salva Stati) ci siamo impegnati a contribuire con la “sommetta” di 125 miliardi in 5 anni; mentre per l’abbattimento del debito, siamo ormai obbligati a rimettere in cassa circa 50 miliardi di euro l’anno per 20 anni. Ad occhio e croce per stare in regola dovremmo trovare nei prossimi mesi – al netto di quanto potrebbe ulteriormente occorrere per rispettare i vincoli che ci siamo dati, qualora la recessione in Italia dovesse perdurare o addirittura aggravarsi – circa 100 miliardi nuovi di “zecca”.
Naturalmente l’informazione, al pari delle forze politiche presenti in Parlamento, parla di altro: chi dei 2 miliardi che mancano per alleggerire il peso dell’IMU; chi dei rimborsi spese che competono ai propri parlamentari; chi, ancora, delle disgrazie giudiziarie del proprio leader. Ma i nodi ormai stanno venendo al pettine e la discussione politica dei prossimi mesi sarà costretta ad affrontarli: dunque, meglio portarsi avanti con il lavoro ed iniziare da subito a sviluppare qualche serena riflessione. Partendo da un presupposto oggettivo: negli assetti attuali non potremo farcela e poiché gli impegni che abbiamo assunto sono di natura strutturale, sarebbe inutile ed addirittura dannoso comportarsi come il debitore con l’acqua alla gola che corre dal “compro oro” di turno per svendere i gioielli di famiglia e garantirsi solo qualche giorno in più di sopravvivenza.
Dunque, occorre intervenire in modo strutturale, definitivo. Ed occorre agire in fretta, per evitare di fare la fine della Grecia. La prima opzione che abbiamo potenzialmente a disposizione – tecnicamente la più semplice – è quella di dare un impulso definitivo a quello che ci chiede l’Europa; in particolare la Germania e la BCE. Preciso, “continuare” a dare, perché tutti ricordano che proprio per fare quello che ci chiedeva l’Europa è nato, nel novembre del 2011, il Governo Monti.
Il Governo Monti è durato in carica 1 anno e 5 mesi, nel corso dei quali ha avuto modo di realizzare molte delle azioni chieste dall’Europa e dalla BCE. Lo ha fatto intervenendo in maniera robusta sia sul fronte della riduzione della spesa (tra tutte, la riforma delle pensioni), che sul fronte delle entrate (IMU, addizionali, tasse etc.) Secondo la BCE queste misure (note come misure di “austerità”, ovvero misure volte a ridurre deficit e debito attraverso il taglio della spesa e l’aumento delle tasse) avrebbero dovuto contribuire a migliorare i numeri dei nostri conti e, di conseguenza, la reputazione del nostro paese. La storia recente ci racconta, però, una verità diversa.
Nonostante l’aumento delle tasse ed i tagli alla spesa pubblica il Governo Monti è riuscito a generare un aumento del debito pubblico di quasi 130 miliardi in soli 17 mesi, portandolo dai 1.912 miliardi del novembre 2011, ai 2042 miliardi dell’aprile 2013. Un aumento del debito che ha coinciso – come era inevitabile – con l’aumento della spesa per gli interessi che paghiamo sul debito. Un vero record: il peggior risultato di sempre rispetto a tutti i governi che lo hanno preceduto, dal 1996 ad oggi.
È stato davvero sorprendente questo esito? Era inimmaginabile? Io rispondo di no, considerato che la stragrande maggioranza degli economisti sostiene che per superare le fasi congiunturali negative occorre fare esattamente il contrario di quello che ci chiede l’Europa e che Monti nei suoi 17 mesi di Governo ha iniziato a realizzare. Anche a me – che economista non sono – risulta facile capire che chi pensa di poter superare una crisi in atto sottraendo risorse alle già ridotte disponibilità delle famiglie e delle imprese, sceglie una terapia che conduce rapidamente il malato alla morte e non certo alla guarigione. Vale la pena, allora, continuare a fare acriticamente quello che ci chiedono l’Europa e la BCE? Io rispondo ancora una volta di no.
Il prezzo dei tagli imposti dalla c.d. “austerità” non l’ha pagato di certo chi sta bene; chi magari può permettersi di curarsi all’estero o di pagare la retta per iscrivere i figli in una scuola privata. I tagli ai quali ci costringono l’Europa e la BCE li ha pagati e continuerebbe a pagarli in misura sempre maggiore chi ha bisogno dello Stato: per curarsi da una malattia, così come per studiare in una Università o per trovarsi un lavoro. Mentre le misure aggressive che sempre l’Europa e la BCE richiedono in materia di liberalizzazione del mercato del lavoro, le ha pagate e continuerebbe a pagarle chi lavora. In buona sostanza, lo schema che ci propongono l’Europa e la BCE prevede che il recupero di competitività dell’Italia (se mai ci sarà, visti gli esiti disastrosi del precedente specifico costituito dal Governo Monti) venga pagato dalla progressiva cancellazione delle conquiste sociali degli ultimi 50 anni, dall’abbattimento delle retribuzioni (magari con l’introduzione di modelli contrattuali simili ai mini job tedeschi, con salari omnicomprensivi non superiori a 400 euro mensili) e dall’arretramento complessivo dei diritti.
Il buon senso, però, prima ancora che gli indicatori economici, ci dicono che, procedendo in questa direzione di marcia, finiremo con l’avvicinarci progressivamente alla Cina e non certo alla Germania. Mentre, se non ricordo male, l’introduzione dell’Euro e la conseguente rinuncia alla c.d. “sovranità monetaria” – quella che consente a paesi che stanno molto peggio dell’Italia di pagare interessi sul debito anche dieci volte più bassi – vennero decise perché ci fu garantito che la moneta unica avrebbe reso unica ed omogenea anche l’economia europea ed avrebbe, altresì, fornito un decisivo contribuito al processo di integrazione politica tra i diversi stati.
Ma allora ha torto chi sostiene che la moneta unica ha tradito i suoi obiettivi politici ed economici? La mia risposta è nuovamente no! L’Euro doveva essere il punto terminale di tutti i processi di unificazione auspicati anche dagli europeisti più convinti. Averlo imposto, invece, come il punto di partenza si è rivelato un errore, sia rispetto alle prospettive di natura politica, che rispetto a quelle di natura economica. Mai come in questi anni si sono visti riemergere egoismi nazionali che ormai condizionano in maniera pesante anche le dinamiche elettorali interne ai singoli stati (soprattutto quelli che in questa fase dovrebbero mostrarsi più “generosi”) e mai come in questi anni le economie nazionali hanno accentuato, piuttosto che attenuato, le distanze dei rispettivi fondamentali economici. Dunque, se l’Euro doveva accompagnarci in questi anni verso l’unificazione politica ed economica dell’Europa, l’Euro ha fallito.
E riconoscerlo espressamente non è un atto di parte; è semplicemente un atto di responsabilità verso il paese. In questo contesto, immaginare che l’attuazione acritica e sostanzialmente incondizionata di quello che ci chiedono l’Europa e la BCE possa portarci fuori dalla recessione e, più in generale, dalla crisi drammatica che stiamo vivendo è semplicemente fuori dalla realtà. Fatta questa premessa (negativa) sulla prima “opzione” in campo, una seconda “opzione” potenzialmente positiva per tutti – inclusi i paesi, come la Germania, che vivono di esportazioni verso l’Italia ed il resto dell’Europa – potrebbe ragionevolmente essere quella di ricostruire insieme le condizioni minime necessarie per dare un po’ di respiro all’economia, riformando in primo luogo il sistema “perverso” che negli ultimi anni ha costretto gli italiani a pagare solo di interessi una somma corrispondente alla metà di tutto il debito pubblico. In pratica, un percorso condiviso di alleggerimento di tutte le rigidità che fino ad oggi hanno imbrigliato i nostri margini di manovra, obbligando i governi dei paesi in crisi ad intervenire esclusivamente con le tasse e con i tagli indiscriminati alla spesa.
Un percorso obiettivamente auspicabile e che in molti hanno provato fino ad oggi a spingere, senza peraltro conseguire risultati significativi, soprattutto per l’opposizione di chi da questa situazione ci ha guadagnato ed intende evidentemente continuare a guadagnarci. Occorre, quindi, valutare bene anche la possibilità che questo percorso non sia realizzabile (e le indicazioni che arrivano dall’Europa che conta ci dicono che al momento questa strada non è realizzabile); nel qual caso non resterebbe che una terza opzione. Sganciarci dall’Euro, da soli o in compagnia. E farlo possibilmente con il consenso degli altri partners ma, se necessario, anche senza il loro consenso.
Molti economisti se ne sono occupati e continuano ad occuparsene e moltissimi, tra loro, sostengono motivatamente che di fronte agli scenari che ho brevemente rappresentato, l’opzione dell’uscita dall’attuale moneta unica rappresenti l’unica possibilità che ci resta per salvare ciò che possiamo ancora salvare. “Come uscire” è questione che investe particolari approfondimenti tecnici e molte altre scelte, alcune anche di natura strettamente politica; di questo proveremo a discutere nei prossimi giorni. Quello che, invece, ho voluto sottolineare oggi è che: – a breve non saremo più neppure nella condizione di poter valutare “se uscire”; – mettere in discussione l’Euro non vuol dire mettere necessariamente in discussione l’Europa; anzi, può voler dire esattamente il contrario; – questa riflessione – che investe il futuro delle nuove generazioni ed il presente di milioni di lavoratori, di autonomi e più in generale di tutte le categorie che hanno pagato sulla loro pelle il prezzo della crisi e che in Europa è inspiegabilmente patrimonio quasi esclusivo di movimenti populisti o di destra – deve entrare a pieno titolo nella discussione sul futuro del centrosinistra italiano.
Il Movimento 139 proverà a farsene carico, con le modalità, i tempi e le proposte operative che valuteremo insieme. Se vuoi aiutarmi o anche solo farmi sapere come la pensi, scrivi direttamente a: info@carlocostantini.it