Stasera in prima serata torna un appuntamento televisivo imperdibile, la terza puntata de “Di padre in figlia” , coprodotto da Rai Fiction e BiBi Film Tv (Angelo Barbagallo), per la regia di Riccardo Milani. Scritta da Cristina Comencini, la fiction si articola in quattro puntate per raccontare la storia di una famiglia residente in Veneto, precisamente a Bassano del Grappa, in un Paese con uomini e donne a confronto in un periodo storico attraversato da forti cambiamenti ideologici e culturali.
Dal ’58 ai primi anni ’80, “Di padre in figlia” racconta uno spaccato di storia italiana, soffermandosi sulla famiglia Franza, guidata da un padre di famiglia intransigente e orgoglioso per il quale conta solo il riscatto economico. Giovanni Franza è un uomo che eredita l’essere padre padrone dalla cultura del suo tempo senza saper affrontare il cambiamento, perché ancora ancorato all’idea di tramandare la direzione dell’impresa di famiglia al figlio maschio. Imporrà le sue scelte alla moglie Franca, costretta a non mostrare la propria emotività per non contrastare il marito, alla figlia Elena, estroversa e libertina e alla figlia maggiore Maria Teresa. Nonostante il potere quasi dispotico nei confronti del genere femminile, le donne di casa Franza riusciranno a essere le vere protagoniste della propria vita; tra queste proprio Maria Teresa che, con timidezza e con ferrea determinazione, deciderà di andare contro il volere paterno e di studiare Chimica a Padova. Tante le tematiche che vengono affrontate: l’imprenditoria femminile, la famiglia, l’indipendenza e il desiderio di essere liberi. In questo romanzo di formazione, ci sono moltissimi tipi di donne diverse l’una dall’altra ma che finalmente vengono considerate in tutta la loro essenza dalla società. Nei ruoli dei protagonisti troviamo attori straordinari, quali Alessio Boni, Stefania Rocca e Cristiana Capotondi, che danno vita a personaggi solo apparentemente così lontani da noi.
In occasione della messa in onda della terza puntata, ho avuto il piacere di fare due chiacchiere con il regista Riccardo Milani, firma indiscussa del piccolo e del grande schermo. Portano il suo nome infatti film come “Il posto dell’anima” e “Piano, solo”, come “Rebecca, la prima moglie”, “Volare- la grande storia di Domenico Modugno” e “Una grande famiglia”. Abbiamo ripercorso quelli che secondo me sono stati i capisaldi di una carriera costellata di successi, abbiamo parlato del suo grande amore per il mestiere che ha scelto ma anche della fatiche e delle dure leggi che il complesso mondo del cinema comporta. Legato a quel cinema intento a scavare nell’animo umano, Riccardo Milani sa cogliere ancora una volta le sfumature delle emozioni, anche in “Di padre in figlia”.
Chi è Riccardo Milani oggi?
E’ un uomo che ha avuto la fortuna di poter fare quello che sognava da bambino; è sempre rimasto incantato dal mondo del cinema sin da piccolo e poterlo fare per tutta la vita è davvero qualcosa di meraviglioso! Non è un mondo così roseo come può sembrare però, perché comporta dei momenti di difficoltà e anche l’impatto sul mercato è sempre da tenere ben presente, ma è un mestiere molto affascinante che vale la pena vivere fino in fondo.
Com’è nata la sua passione per il cinema?
Nonostante fossi piccolissimo, ricordo bene il cinema che avevo sotto casa perché il suo soffitto si apriva, consuetudine per molte sale cinematografiche perché in quel modo fuoriusciva il fumo delle sigarette tra il primo e il secondo tempo. Mi trovavo al terzo piano e, appoggiandomi sulle grate di casa mia, sentivo arrivare le voci dei doppiatori italiani; per me quello è stato il primo impatto con il magico mondo del cinema! Sono anche molto legato ai racconti che faceva mio padre; era entrato a far parte di questo mestiere facendo la comparsa nel dopoguerra in un’Italia poverissima; c’era uno stabilimento dal nome Scalera Film ai margini di Roma Sud in cui un regista definito dai più squattrinato, un certo Orson Welles, cercava di finire il suo Otello reclutando ragazzini per fare da comparse e mio padre è stato tra quelli scelti. La mia passione per il cinema è proseguita anche da più grande; avevo una ventina d’anni e studiavo medicina. Sono sempre stato convinto che i film italiani avessero quel qualcosa in più che li contraddistingueva da tutti gli altri, tra questi sicuramente “I soliti ignoti” di Mario Monicelli che raccontava la disperazione del nostro Paese nel dopoguerra in chiave di commedia, la disoccupazione e anche una sorta di nostra predisposizione al lamento. Ricordo di essere andato dal regista in persona a Cinecittà a chiedergli di fare l’assistente volontario. La mia prima giornata su un set l’ho trascorsa tenendo l’ombrello per coprire dal sole un’attrice che si chiamava Catherine Deneuve; ricordo di aver sudato tantissimo, non solamente perché era fine luglio e faceva davvero molto caldo, ma sopratutto perché avevo vicino una tra le più grandi attrici. Ho fatto l’assistente volontario, poi l’assistente alla regia e l’aiuto regista, infine il regista.
Cosa vuol dire nel 2017 essere regista e sceneggiatore in un Paese come il nostro?
Vuol dire pensare di avere la capacità di rispettare da una parte il pubblico e il mercato e dall’altra il pensiero libero, guardarsi cioè intorno senza chiudere gli occhi di fronte alla realtà delle cose; è estremamente complicato tenere insieme queste due componenti ma credo ci si possa riuscire.
Tra i suoi capolavori, troviamo “Il Posto dell’Anima” che racconta la storia di un gruppo di operai che perde il proprio posto di lavoro in seguito alla chiusura di una fabbrica. Qual è il vero posto dell’anima?
Non lo sapevo allora e non credo di saperlo adesso a dire la verità, lo cercavano anche quegli operai in realtà! E’ la storia di un gruppo di amici che frequentavo, conoscevo la loro storia, sapevo le vicende che stavano vivendo e i loro drammi. Erano partiti da un paesino molto piccolo del centro Italia, erano poi emigrati alla fine degli anni ’70, collocando le loro vite molto lontano perché avevano trovato posto nelle grandi multinazionali. A distanza di tempo, il mercato cambia, esattamente come la loro salute. Quegli uomini lavoravano le gomme e gli pneumatici; questo mestiere comportava rischi enormi per la vita. La loro storia mi aveva colpito sin da subito; all’epoca chi doveva difendere i lavoratori non l’aveva fatto e gli stessi operai seguivano la logica “meglio morti che disoccupati”. Devo ammettere che molti lavoratori hanno ancora questa filosofia di vita, ben consapevoli dei rischi ai quali vanno incontro.
Un’altra sua bella fatica per Rai1 è sicuramente “Rebecca, la prima moglie”, la fiction campione di incassi che trae ispirazione dal celebre film uscito nel 1940 dalle mani di Hitchcock. E’ stato difficile avvicinarsi a un mostro del cinema come lui?
Assolutamente sì! Abbiamo infatti raccontato questa storia con la massima prudenza, ma con grandissimi attori e un impianto produttivo molto importante. Sia come spettatore sia come regista non sono mai stato un purista di film, di prese dirette e di tutti quei paramentri che definiscono un cinefilo. Ben venga il cinema, anche se credo che l’eccessività, anche nel piccolo e grande schermo, provochi seri danni.
Ha portato sul piccolo schermo due serie tv meravigliose come “Atelier Fontana – Le sorelle della moda” e “Volare – La grande storia di Domenico Modugno” facendoci rivivere il mito delle sorelle Fontana e di Modugno, chi sono loro per lei?
Le sorelle Fontana sono state tre donne che hanno affrontato giovanissime e da sole la realtà della vita, tre donne che hanno avuto il talento e il coraggio di imporsi riuscendo a superare la propria realtà di provincia. Modugno era un ragazzo pieno di desideri che ha saputo regalare la sua arte. Le sorelle della moda e il padre della canzone hanno avuto la straordinaria capacità di realizzare un sogno, il proprio, qualità che rende noi Italiani speciali nel mondo e loro lo sono stati davvero.
Ha diretto interpreti straordinari anche nella fiction “Tutti pazzi per amore”, la prima e la seconda stagione, in cui si parla di amore. Cosa rappresenta l’amore nelle nostre vite?
E’ una parola spesso usata a sproposito, mentre altre volte totalmente dimenticata. Amore e passione sono e dovrebbero essere sempre le costanti nella vita di ciascuno di noi, l’amore non solo per le persone che ci stanno accanto, ma anche per ciò che ci circonda. L’amore è anche la forza di credere in sé stessi, nel cercare di realizzare i propri sogni, anche se a volte sembrano totalmente irraggiungibili.
Altra serie tv di successo è “E’ arrivata la felicità” con Claudio Santamaria e Claudia Pandolfi. Qui, la felicità è la protagonista indiscussa, in un certo qual modo il motore attorno a cui ruotano e s’intrecciano le storie. La felicità può davvero far parte della nostra vita nonostante una società che ultimamente sembra lasciare sempre più spazio ad episodi tristi e dolorosi?
Certamente sì! Credo che la vita sia un’opera meravigliosa perché imperfetta e dovremmo amarla proprio per questo; è fatta di gioie e di spensieratezza ma, allo stesso tempo, da dolore e da drammi che appaiono molto spesso insuperabili. Non so dirti se la felicità sia una stazione d’arrivo o un modo di viaggiare, può far parte dell’esistenza umana ma credo che ognuno di noi possa star bene anche con equilibrio e serenità.
Sta andando in onda in queste settimane “Di padre in figlia”. Com’è nata l’idea di fare questa fiction e perché questo titolo?
Nasce da un’idea di Cristina Comencini, una bella intuizione che l’ha poi portata a scrivere il soggetto per questa fiction televisiva. Abbiamo deciso di raccontare una rivoluzione importante per il nostro Paese, forse l’unica vera rivoluzione in questi ultimi decenni, ovvero di come cambia il ruolo della donna all’interno della propria famiglia e nel mondo del lavoro. Il genere femminile ha cambiato radicalmente il tessuto sociale della società italiana. Quello che per molto tempo ci siamo augurati si è avverato, anche se credo ci voglia ancora molto tempo per avere una completa parità di sessi, la cronaca ce lo ricorda spesso sbattendoci in faccia quello che drammaticamente si verifica, purtroppo; episodi quotidiani sono ancora ancorati al passato e questo è un presente molto amaro da sopportare. E’ merito di ricercatrici, scrittrici, scienziate, ma soprattutto delle donne comuni che all’interno delle proprie mura domestiche hanno attuato dei piccoli ma grandi cambiamenti se oggi questa nostra Italia può ancora salvarsi!
La storia che ci viene raccontata è ambientata in un arco di tempo che va dagli anni 50-60 in poi e narra le vicende della famiglia Franza. Com’era la società di allora? Su quali valori portanti si basava?
Quella di allora era una società patriarcale; le donne si dedicavano a grandi fatiche e alla gestione della famiglia, le mansioni importanti erano riservate invece agli uomini. Oggi è cambiata la vita economica delle famiglie; da qualche decennio infatti le donne lavorano, anche se a dire il vero l’hanno sempre fatto ma non con le capacità di gestire un’azienda per esempio, di ricoprire cariche pubbliche importanti, di avere ruoli chiave nel mercato del lavoro. Nella nostra società c’è stata una vera rivoluzione anche se di fatto ancora non siamo riusciti a raggiungere la parità dei diritti, la strada credo sia ancora molto lunga.
Una delle tematiche affrontate è anche il desiderio di libertà e di indipendenza, peculiarità che accomunava molti giovani. Oggi siamo davvero liberi?
In Italia (ma non solo) ci sono equilibri dettati non da noi che devono essere rispettati e credo che chiunque dovrebbe avere l’onestà intellettuale di ammetterlo. Non siamo liberi oggi come oggi, ma ritengo che ognuno di noi possa avere la capacità di scegliere, senza delegare ad altri, senza farsi scegliere.
Nei ruoli da protagonisti troviamo Alessio Boni, Stefania Rocca e Cristiana Capotondi. Perché proprio loro?
Perché erano gli attori giusti per la storia che volevamo raccontare; i personaggi sembravano quasi disegnati apposta per loro, senza contare poi sul fatto che un interprete non è mai fedelissimo alla sceneggiatura perché porta molto di sé in scena. La componente umana per me è importantissima, perché, oltre alla bravura dell’attore, è proprio quella che conferisce al personaggio interpretato quella carica emotiva in più che poi arriva al pubblico. Da regista, cerco sempre di scavare, senza fermarmi mai alla superficialità. Inoltre sono attori con i quali avevo già avuto il piacere di lavorare, questo mi ha permesso di avere con loro una grande complicità, qualità essenziale per la realizzazione di un buon progetto!
Cosa vorrebbe arrivasse di questa fiction al grande pubblico?
“Di padre in figlia” parte dai titoli di testa con immagini di repertorio dei nostri che dal Veneto partivano per il Brasile in cerca di fortuna. Spesso ci dimentichiamo che gran parte dei nostri connazionali hanno lasciato il nostro Paese per avere un futuro migliore dei propri predecessori; ecco questo dovremmo averlo ben stampato della nostra mente. Vorrei fosse una fiction seguita da molti giovani, per avere memoria di quello che non hanno vissuto. Mi piacerebbe arrivasse una particolare sensibilizzazione verso un periodo in cui eravamo noi quei migranti.
Quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud. Qual è il suo rapporto con la parola Sud?
Posso dirti che Nord e Sud sono parole che probabilmente usavo una quindicina di anni fa, non mi piace pensare a una distinzione o a un confine ben definito. Il mercato sicuramente gioca su questo equilibrio, un equilibrio che altro non fa che far crescere le disuguaglianze, le guerre e le distinzioni che non dovrebbero invece esistere.
I suoi prossimi progetti?
Sto preparando un nuovo film per il cinema che inizieremo a girare a fine agosto!
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