È stato recentemente pubblicato il mio libro, “Redimibile Sicilia: l’Autonomia dissipata e le opportunità della insularità”, con la prefazione di F. Salvia, Rubettino (2017), pp. 205, del quale di seguito pubblico alcune parti della premessa.
Il libro raccoglie i risultati di una riflessione sull’autonomia siciliana al tornante dei settant’anni dell’approvazione dello Statuto e del dibattito che si è sviluppato attorno alla proposta di revisione costituzionale seguita dall’esito del referendum confermativo, ed oggi, dall’esigenza, che permane intatta, di una profonda riforma dell’autonomia differenziata e del riparto di competenze nel mutato contesto istituzionale e socio-economico nazionale ed europeo.
Trascorso un notevole lasso di tempo dall’elaborazione dello Statuto autonomistico, attraverso la concreta attuazione e alcuni fallimenti1, di fronte all’esito del controverso tentativo di riformare le Regioni, occorre ancora chiedersi se l’autonomia sia ancora utile ai siciliani e di quali riforme necessiti per accrescerne il rendimento istituzionale.
E ciò nel contesto di grave disagio che attraversa oggi il Mezzogiorno, opportunamente definito da S. Cassese come “il maggiore fallimento dello Stato unitario”, tra tentativi di superamento del divario, fasi di impegno e di disimpegno istituzionale, prospettive meridionaliste, neo-meridionaliste, cadute il quella che A.O. Hirschmann definiva “fracasomania”, centralità e marginalità nell’agenda politica, che hanno determinato non solo che l’Italia resti l’unico Paese marcatamente duale d’Europa, ma anche quello nel quale, pur di fronte ad alcuni barlumi di ripresa che si intravedono, sebbene relativi ad aree territoriali e comparti circoscritti, si registra complessivamente l’aggravamento del divario tra nord e sud.
È ormai un dato consolidato che il Sud abbia segnato in modo più marcato la prevalenza del “no” al referendum confermativo della revisione costituzionale, tenutosi il 4 dicembre 2016. Appare peraltro convincente e diffusa la ricostruzione che ascrive questo risultato, non solo al merito della questione della revisione costituzionale sottoposta al suffragio referendario, a partire da una chiara spinta accentratrice in controtendenza non solo con le principali linee originarie ed evolutive della Costituzione repubblicana, ma anche con le tendenze in atto in Europa, come pure ad una grave e diffusa insoddisfazione verso le tiepide politiche di coesione del Governo dell’elettorato meridionale e, in particolare, delle Isole.
Come confermato da analisi successive all’espressione del voto, almeno la metà di coloro che hanno espresso il loro dissenso sulla revisione costituzionale lo ha fatto per una motivazione “politico-sociale” di avversione al Governo, piuttosto che per il dissenso sui contenuti della proposta di riforma.
Il Mezzogiorno, e in particolare quello insulare, ha così espresso una profonda avversione non solo a molti dei contenuti della riforma, che pur non mancava di elementi di sicuro pregio, ma soprattutto alle politiche del governo che con essa ha inteso identificarsi.
E non si tratta di un esito che può esser letto in termini di conservatorismo istituzionale o arretratezza culturale, ma che ha profonde radici nel malessere che attraversa la società meridionale e, in particolare, quella insulare.
Le due isole maggiori, Regioni ad autonomia differenziata, peraltro rette da esecutivi espressione di maggioranze politicamente filo-governative, hanno manifestato il massimo dissenso alla proposta di revisione costituzionale. Tale esito, se non può non destare i necessari interrogativi anche sul rilievo dell’autonomia speciale nel contesto della revisione costituzionale, lascia comunque impregiudicato il tema della riforma delle Regioni e, specialmente, di quelle differenziate e insulari.
Nel libro, partendo dalla stagione della genesi dello Statuto speciale siciliano che va dal 1944 al 1946, ma che si protrae sino al 1948 con la conclusione dell’esame da parte dell’Assemblea costituente sino alla pubblicazione della legge costituzionale n. 2 del 1948, n. 2 si ripercorrono alcune delle fasi attuative dell’autonomia per analizzare l’oblio nel quale essa è scivolata e le potenzialità che ancora residuano per ipotizzarne il rilancio.
Un testo, quello dello Statuto siciliano, che se da un lato raccoglie le innovative intuizioni del regionalismo italiano ed europeo, dall’altro si riconnette alle direttrici costituzionali che, a partire dal 1812 e sino al 1860, animarono il confronto sull’autogoverno della Sicilia di cui lo stesso G. Salemi, guida sicura della Commissione che ne elaborò il testo base, delinea il contesto che ne accompagnò la genesi.
Non si tratta di offrire un nuovo contributo, quindi, ad una ricorrenza del documento fondativo della speciale autonomia regionale, lo Statuto speciale, con i suoi molteplici punti di forza, ma anche con le sue intrinseche debolezze i cui effetti si sono poi manifestati in fase attuativa. Né, tanto meno, giova riproporre in chiave aggiornata l’idea “sicilianista”, o meglio la sua retorica, che scarica sul Governo statale le cause di tutti i mali di un sistema che invece, per molti versi, trova al proprio interno spinte inerziali e paralizzanti. Spinte le quali hanno contribuito non poco al regresso dell’Isola nel panorama economico italiano e che negli istituti della speciale autonomia e nell’utilizzo di risorse finanziarie che essa ha consentito, hanno trovato spesso un moltiplicatore, se non addirittura un detonatore.
Un assetto che se si alimenta attraverso il “sistema dei doni” (o delle clientele) nel quale le leggi divengono e si accostano al soggetto concreto, ne condividono ansie e preoccupazioni, soccorrendo benevolmente chi chiede con messaggi individuali, rassicurazioni, raccomandazioni, provvidenze, ma nel quale i privilegi delle classi dirigenti (prima i nobili, poi i notabili, successivamente le burocrazie politiche, amministrative, sindacali ed imprenditoriali) diventano l’obiettivo dissimulato di una rivendicazione autonomista.
Piuttosto si vuol intraprendere il tentativo di ripercorrere spinte e pulsioni di un’intensa e tumultuosa stagione costituente che attraversò la Sicilia, al termine della Seconda guerra mondiale e l’occupazione degli alleati, che pur dilaniata dall’endemica povertà, dalle conseguenze disastrose della guerra e dalle antiche aspirazioni separatiste, riuscì a trovare – anche grazie all’ancora inesplorato contributo di V E. Orlando – un assetto (l’autonomia regionale differenziata) di permanenza nello Stato italiano.
Lo Statuto autonomistico, nonostante le speciali prerogative enunciate, ad accezione di alcune fasi circoscritte nel tempo, ha finito per svolgere un ruolo inerziale soprattutto per le patologie (esogene più che endogene) che ne han-no accompagnato l’attuazione, trasformando l’autonomia in feticcio, troppo spesso utilizzato da classi dirigenti spregiudicate e accompagnate da un basso livello di controllo sociale che non è riuscito a contrastare, per un verso, i molteplici tentativi di compressione della specialità e di progressiva riduzione di trasferimenti – tendenza che oggi ha raggiunto il culmine –, per altro verso, la degenerazione di clientele e privilegi per i titolari di quella intermediazione parassitaria che ha riguardato la politica, la burocrazia, ma anche ampi settori del sindacato e delle associazioni imprenditoriali.
Si è così appalesata per la Sicilia, e con sempre maggiore forza, quella “dequotazione della specialità” che G. Corso aveva già rilevato nel 1983, nel rapporto sulla Regione.
I dati più recenti sull’andamento dell’economia, la disoccupazione giovani-le, la migrazione studentesca, la qualità della vita delle città della Sicilia, come le tendenze finanziarie e demografiche per il futuro non necessiterebbero di commenti e potrebbero portare alla conclusione, preferita da alcuni, che il di-ritto all’innovazione dei siciliani ha trovato nell’autonomia regionale soltanto elementi depressivi piuttosto che opportunità di crescita.
In altre parole, passerebbe l’assunto che in zone culturalmente ed economicamente depresse l’intervento dello Stato centrale (sia nella spesa diretta che nella gestione dei fondi europei) potrebbe offrire elementi di efficienza che non possono essere garantiti a livello regionale.
Pur senza giungere alla non condivisibile conclusione che ciò sia ascrivibile a una sorta di minorità antropologica, o anche soltanto culturale, si riterrebbe ottimale una soluzione di centralismo statale che, tuttavia, non trova riscontro in nessun altro assetto statuale europeo al contrario connotati da dinamiche diametralmente opposte di tipo disaggregativo (basti pensare al Regno Unito, alla Spagna e alla stessa Francia).
Il “fallimento dell’autonomia” , in tal guisa, ne giustificherebbe non la riforma, il ripensamento con l’adozione di modelli innovativi, ma la semplice soppressione, formalizzando quella equiparazione al ribasso che il “bradisismo costituzionale” italiano ha determinato tra enunciazioni formali di rafforzamento (emblematica la riforma del Titolo V, parte seconda della Costituzione) e prassi interpretative, suffragate soprattutto dalla lettura fattane dalla Corte costituzionale, oltre che dal self-restraint delle stesse Regioni speciali, o quantomeno, di quello delle più deboli tra queste. Tale tendenza ha frastagliato ancor di più il variegato scenario del regionalismo italiano che le contrastate vicende del c.d. “federalismo fiscale” (l. n. 42 del 2009 e s.m.i. e la complessa normativa di attuazione), rimasto irrisolto nella sua geometria e nella parziale attuazione, hanno accentuato.
Le Regioni speciali, che già da tempo avevano avviato una profonda differenziazione al loro interno – quelle del nord da una parte, le insulari meridionali dall’altra – risultano adesso profondamente diversificate, soprattutto per quella che viene ritenuta una delle principiali peculiarità: l’autonomia finanziaria.
E tale dualismo appare rafforzato dal ritardo nell’attuazione del federalismo fiscale per la Sardegna, ma ancor più per la Sicilia. E così la differenziazione, piuttosto che caratterizzare l’autonomia delle Regioni speciali, diviene il connotato che si caratterizza all’interno del loro gruppo, facendone una categoria giuridica frastagliata e contraddittoria.
La variegata esperienza del regionalismo speciale in Italia, il rafforzamento delle spinte all’autonomia che emergono da altre democrazie europee, l’incapacità delle strutture statali di garantire gli interventi perequativi prescritti dalla Costituzione, sia alle Regioni ordinarie che alle speciali del Mezzogiorno, il ritardo nell’impiego di risorse comunitarie anche di importanti programmi nazionali, il rilancio dei temi dell’insularità a livello europeo impongono tuttavia di prescindere da soluzioni semplicistiche, che avrebbero l’effetto di sostituire criticità e alimentare il drammatico divario che sta spaccando il Paese.
Si impone, quindi, una riflessione sull’autonomia regionale che conosciamo e le fasi nelle quali si è poi concretamente e contraddittoriamente attuata, ma anche per guardare al suo futuro, all’appuntamento con l’ineludibile “risignificazione” nella prospettiva del riassetto costituzionale e della dimensione europea.
Un futuro che, peraltro, sembra prossimo, nel quale ripensare l’autonomia regionale siciliana non solo perché nel pieno di una crisi che prima che organizzativa e finanziaria è di legittimazione istituzionale, ma anche a seguito dell’irrompere della revisione costituzionale, respinta dal referendum del 4 dicembre scorso, che, sebbene contraddittoriamente definita a livello statale, lascia comunque aperto nel dibattito istituzionale il tema della riforma dei rapporti tra Stato e Regioni.
Il giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’esperienza maturata, in generale dalle regioni ad autonomia differenziata, ma soprattutto dalla Sicilia, ancor più accentuata nel recente periodo anche a causa delle misure di rigore economico connesse alle esigenze di risanamento del deficit di matrice europea e alla grave riduzione di investimenti che hanno colpito soprattutto il Mezzogiorno, impone tuttavia una profonda rilettura dell’autonomia siciliana, delle sue radici, delle opportunità, seppur non sempre colte, delle patologie che questa esperienza istituzionale ha manifestato, ma anche del permanere di molte delle ragioni che ancora oggi giustificano un regime differenziato dell’essere regione in Italia ed in Europa.
La revisione degli Statuti speciali che era prevista dal complesso e controverso percorso di modifica costituzionale, avrebbe potuto costituire l’occasione per determinarne una profonda rivisitazione.
Tuttavia per la Carta fondamentale dell’autonomia siciliana, nonostante il chiaro esito referendario – del quale è incontroversa la già ricordata polivalenza dell’espressione popolare – resta immutata l’esigenza di una revisione che consenta di introdurre quegli elementi di innovazione e di rivedere istituti ormai “ibernati” dalla giurisprudenza costituzionale (l’Alta Corte e il Commissario dello Stato, ad esempio), per garantire un confronto positivo e un effettivo co-ordinamento con il quadro costituzionale nazionale, e in particolare europeo del tutto estraneo all’attuale stesura.
Mentre in senso inverso, e con una prospettiva nettamente svalutativa, devono leggersi adesso le modifiche introdotte alle norme di attuazione in materia finanziaria (d.P.R. n. 251 del 2016), appena entrate in vigore e di cui si tratterà meglio nel prosieguo, che pur senza modificare il testo statutario riducono, tuttavia, l’autonomia finanziaria della Sicilia e modificano il senso stesso del disegno autonomistico dei Padri dello Statuto.
Il percorso di riforma del regionalismo che necessariamente dovrà riaprirsi dopo il tentativo di modifica respinto dai cittadini con il referendum del dicembre 2016, proprio per il peculiare contesto nel quale vengono collocate le autonomie differenziate, impone alla Regione siciliana un nuovo dinamismo negoziale con lo Stato per disegnare, in termini rinnovati, non solo ripartizioni di competenze legislative e amministrative e legittime spettanze finanziarie, ma una nuova forma dell’autonomia che riqualifichi il decentramento nell’allocazione del potere di decisione politica e possa costituire un valore aggiunto per i siciliani di oggi e di domani.
Soltanto all’esito di questo percorso, che si presenta ancora incerto e controverso, anche a causa delle spinte verso un chiaro accentramento che sembra prevalere nella politica come nella giuspubblicistica italiana – invero in controtendenza alle tendenze al decentramento e alla rilanciata sensibilità verso l’insularità a livello europeo –, potremo verificare quale nuova forma assumerà l’autonomia siciliana.
La specialità, lungi dal rappresentare un retaggio storico che ha progressiva-mente perduto contenuto, e di cui la Sicilia dovrebbe imparare a fare a meno per crescere – come sostiene quella dottrina minoritaria in linea con la pubblicistica detrattrice dell’autonomia –, dopo l’esito del referendum, costituisce al contrario una dimensione verso la quale si orientano Regioni che differenziate non sono quali il Veneto, l’Emilia-Romagna, la Lombardia e che intendono avvalersi delle previsioni di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., nel più ampio contesto di spinta verso l’autogoverno che connota Regioni europee come la Catalogna, i Paesi Baschi, la Scozia, la Corsica.
Di fronte al ‘travaglio’ (parola che in siciliano evoca, dallo spagnolo, anche un duro lavoro) delle riforme, quest’Isola “frammento della modernità” potrà ripiegare verso la fuga dalla peculiarità, riconoscendo come venute meno del tutto le ragioni della specialità e restando così ammaliati da quella nostalgia di irraggiungibile purezza che conclude la fine allegoria di D. Buzzati ne “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” – trovandosi a concludere con l’apoftegma secondo il quale la consolidata minorità culturale non consente ai siciliani l’autogoverno -, o rinvenire, piuttosto, nuove ragioni per le istanze di cambiamento di un’Isola, frontiera d’Europa in quel “crocevia di mille accadimenti e confine tra due mondi”, del passato, ma anche del futuro, che è stato e sarà il Mediterraneo, descritto nelle felici pagine di F. Braudel.
E l’insularità, proprio per la declinazione che riceve nell’ordinamento europeo, costituisce la cifra di una traiettoria di riforma possibile dello Statuto di una Regione confine d’Europa, oltre che d’Italia. Una dimensione dell’autonomia che risponda effettivamente al diritto all’innovazione del popolo siciliano, ma che proietti la Sicilia in una nuova centralità mediterranea valorizzando la sua peculiare e sempre attuale “rendita dell’area posizionale”
Ma è sicuro che questo percorso al contempo di riscatto, ma anche di sviluppo, non potrà che passare per il sapiente, responsabile e coraggioso esercizio dell’autogoverno.
E’ quindi solo attraverso una profonda “risignificazione” dell’autonomia differenziata, nel delineato nuovo scenario nel quale possono dispiegarsi le dinamiche della differenziazione regionale, che si affidi decisamente all’ineludibile discontinuità imposta dai processi di riforma, riprendendo così l’antico monito di T. Jefferson secondo il quale le costituzioni dovrebbero essere modificate da ogni generazione per garantire che il passato ormai morto non condizioni il presente.
Un presente che irrompe su una Sicilia che la pubblicistica ha definito “’incomprensibile” e troppo spesso immutabile nella quale la stessa prospettiva autonomistica diviene “legittimazione all’immobilismo”, parte di un Mezzogiorno che appare nella sua staticità “noioso” e “irrisolvibile”, collocato ormai in una insolubile dimensione “parassitaria” e del quale si studiano addirittura le forme depressive della crisi sociale, conscia del suo controverso passato, dei suoi drammi e parziali riscatti, degli stereotipi che l’accompagnano, si proietta tuttavia nel futuro attraverso la cultura, l’innovazione e la riscoperta dei territori con un forte desiderio, opportunamente rilevato da G. Savatteri nel suo ultimo libro sulla Sicilia, “di libertà e di giustizia, cioè di ragione”.
Un neo-accentramento che abbia quale obiettivo quello di ridurre il ruolo delle autonomie territoriali per conseguire obiettivi di efficienza e rendimento istituzionale appare fuori mira nelle premesse come negli obiettivi che intende conseguire.
In tal senso le cause di molti fallimenti istituzionali nel Mezzogiorno, e quello della Sicilia è in tal senso emblematico (massimo grado di autonomia, minimo livello di risultati raggiunti), impongono di offrire soluzioni diverse da quelle dell’uniformismo post-unitario condizionato in modo determinante dall’esigenza di assicurare l’ordine pubblico, apportando i dovuti correttivi ad un modello che ha inserito elementi di decentramento, in taluni casi anche rafforzato, in un sistema modernizzato, ma senza sviluppo.
È al contrario solo col rafforzamento istituzionale e l’innovazione dei processi decisionali che può costruirsi una possibile prospettiva di crescita e di efficienza.
In questo senso l’autogoverno della Sicilia, per il suo retaggio storico, per le condizioni geografiche di isola-frontiera d’Europa, è destinato ad essere un “segno di contraddizione” per soluzioni semplicistiche di tipo neo-centralistico o, al contrario, regionalistiche basate sul mito, troppo spesso confutato dai fatti, della spinta “autopropulsiva” e caratterizzato da spiccati profili di autoreferenzialità. Si impongono invece modelli flessibili di interazione istituzionale tra il livello europeo, quello statale e delle sue amministrazioni, e quelli regionali e locali nei quali a queste ultime, proprio perché interagenti con enti più forti, è richiesto rendimento, capacità amministrativa, responsabilità.
Quella “governance multilivello” recentemente delineata dal Comitato delle regioni dell’Unione europea che consenta di collegare il livello europeo e statale con Regioni e Città, promuovendo il “partenariato multiattoriale” con le parti sociali, le Università, le Ong e i gruppi rappresentativi della società civile.
Esperienze straniere “possibiliste” hanno dimostrato che la crisi è un ineludibile “ingrediente della riforma” e l’aggravamento dei problemi imponendola ne rende, di per se, più agevole il cammino verso l’accrescimento del rendimento delle istituzioni.
La via della riforma del regionalismo speciale dopo il referendum costituzionale del 2016, nella descritta prospettiva europea e superando la semplicistica “summa divisio” accentramento-decentramento, costituisce allora un’opportunità che non deve essere perduta.
Le riflessioni raccolte nel libro vengono offerte alla nuova “stagione costituente”, auspicando che questa volta sia dominata più che dalla fretta, dallo sforzo del confronto e del dialogo e possa rappresentare un’occasione di rafforzamento della democrazia di una comunità regionale insulare, frontiera europea nel Mediterraneo.
Il diritto all’innovazione del popolo siciliano ha bisogno di coraggio costituzionale – come ha ricordato G. Silvestri – che è prima di tutto coraggio politico e l’autonomia non può essere utilizzata per conculcare questo diritto e perpetuare modelli obsoleti e pratiche involute.
Se la Sicilia può esser redimibile – come non senza prudente consapevolezza si sostiene nel libro – se può riprendere a crescere, a progredire lo dovranno dimostrare i siciliani.