Il problema verrà a cercarmi, questa domenica a Roma all’Auditorium del Parco della Musica, nell’ambito di “Luglio Suona bene”, e mi troverà lì, in prima fila ad aspettarlo alle 21 in punto. Sarà il più bel problema della mia vita, perché i problemi, anche per i masochisti, in fondo non sono mai belli, checché diano a vedere. Ma questo è davvero un bel problema e mi troverà ad accoglierlo col sorriso. E io da mesi non sto nella pelle.
“Trouble will find me” (Il problema mi troverà) è l’ultimo album di The National, ma è anche il titolo del loro nuovo tour. L’album è uscito il 17 maggio. Lo hanno presentato a Berlino. Il tour è cominciato ufficialmente a Brooklyn il 5 giugno, anche se qualche esibizione spot, tipo showcase, l’hanno fatta nei giorni precedenti a sorpresa in alcuni locali di New York.
Un concerto molto atteso quello di Roma. Soprattutto per chi vive al Sud.
Un ritorno nella capitale dopo 8 anni per la band di Cincinnati, Ohio, che da anni ha scelto Brooklyn per vivere e fare musica. La loro prima volta a Roma è stata nel 2005, l’anno di “Alligator”, il loro secondo album. Hanno suonato allo Zoo Pub. Era luglio, e quell’anno sono passati anche da Lecce, Vasto, Ravenna, l’Aquila, Varese, Arezzo Wave. Un gruppo americano, una indie band per pochi cultori. Una carica live che si può comprendere solo quando li si vede all’opera sul palco.
In Italia sono tornati nel 2007, a Milano al Musicdrome. E poi ancora il 16 novembre del 2010 all’Alcatraz. E a Ferrara il 5 luglio del 2011 per promuovere “High Violet”, l’album gioiello che li ha traghettati sulla più vasta scena musicale rock internazionale, tanto che Obama ha scelto un paio di loro canzoni per la sua campagna elettorale. Io c’ero. Come c’ero anche a New York, per tre sere di fila, nel dicembre del 2011 al bellissimo Beacon Theatre. Ospite sul palco Richard Perry degli Arcade Fire. E io nella grande mela andata e ritorno da Bari, solo per vederli.
Poi si sono messi a lavorare sul nuovo disco, “Trouble will find me”, un capolavoro di suoni e testi. Unica pausa “live” il celebre Festival All Tomorrow Parties (ATP) a Camber Sands nel Sussex. Nel 2012 lo hanno curato loro, selezionando i gruppi partecipanti. Tre giorni di concerti, dal 7 al 9 dicembre, in pieno inverno in un villaggio turistico a qualche metro da una immensa distesa di sabbia, sold out in poche ore. Hanno suonato anche loro, l’unico concerto effettivo fra i due tour. Tante telecamere sparse qui e li, sotto e sopra il palco. Stavano girando materiale per “Mistaken for strangers”, il film sulla loro vita in tour, che hanno presentato acclamatissimi al Tribeca Film Festival di New York lo scorso aprile.
C’ero anch’io a Camber Sands per l’ATP e con me Lucia, avvocato di Padova, madre di famiglia, a cui ho trasmesso la passione per le liriche intimiste, surreali, a cavallo fra visioni metropolitane e divagazioni oniriche, di questa band. Eravamo andate insieme anche a New York. Sarà anche a Roma. Da Bari mi accompagna la scrittrice Gabriella Genisi e Paola, una cara amica che era venuta con me a vederli anche a Berlino. Incontrerò a Roma Valentina, che cura il fan club italiano attraverso il sito slowshow.org e Jayne Kassler Laurie, fotografa inglese e blogger free lance, che li segue da anni in tutti i tour.
Dovunque suonano The National c’è Jayne in prima fila con il suo borsone di macchine fotografiche. Ore di coda per meritarsi quel posto e a fine concerto ad attenderli nel back stage per fare due chiacchiere. Nel 2012 ha lavorato per un anno per auto-produrre un libro di testi di fan dedicati alla loro musica. Ci ho collaborato pure io, indagando nelle relazioni testuali e costruzioni sintattiche delle loro canzoni – immaginifiche e talvolta insensate – e scovando assonanze evidenti con la prosa cantilenante di Gertrude Stein.
Questa è la storia di una fan italiana. Una fan che per vederli suonare non resta al Sud. Passione pura per la buona musica. Perché io potrei essere la mamma di Valentina o la zia di Jayne. Come potrebbe esserlo anche Lucia e Gabriella. Ma nella musica di The National ci sono più vent’anni del migliore rock anglo-americano. Da Joy Division a Leonard Cohen, da Wilco a Nick Cave. Più generazioni e gusti musicali che si incontrano senza dover faticare, perché la musica di The National se entra nella tua vita non esce più.
Difficile definire il loro stile. Forse per questo sono arrivati tardivamente al successo. Stridori e melodie, raschi e carezze, una ritmica accentuata, la batteria e il basso molto presenti. Musicisti maiuscoli, loro. I due gemelli Aaron e Bryce Dessner, chitarre e tastiere, hanno una formazione classica. E non a caso hanno messo su un progetto parallelo che si chiama The Long Count, tutt’altro genere di musica rispetto a quello della band principale. Visti a Londra nel febbraio del 2012, andata e ritorno da Bari, sorprendenti nella loro avanguardia.
Fanno parte di The National Scott e Bryan Devendorf, basso e batteria, fratelli anche loro. E ultimo ma importantissimo, il cantante Matt Berninger, che scrive i testi, buona parte con sua moglie Carin Besser, former editor del New Yorker. Matt lo chiamano il Chevy Chase del rock. Battuta pronta, amante del buon vino (ogni tanto gli spedisco a Brooklyn cesti con negramaro, olio extravergine e altri buoni prodotti pugliesi), voce baritonale straordinaria, fascino da leader e una presenza scenica unica. Celeberrime le sue passeggiate fra il pubblico, mentre canta “Mr November” o “Terrible love”, trascinandosi dietro il microfono col filo, aiutato dai fans e dalla crew, sotto gli sguardi vigilissimi e preoccupati del servizio d’ordine. Ma lui è così. Si fa largo cantando fra la gente, senza timore, talvolta in equilibrio assai precario sulle poltrone dei teatri.
Anche questa volta andrò a cercarlo. A Roma e il giorno dopo a Milano e poi ancora chissà dove in questo nuovo tour. E sarà sempre un bellissimo problema.
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