«Mi ero preparata per andare a scuola, ero pronta; mi ritrovai dopo un po’ sotto le macerie, piangevo e gridavo “Voglio andare a scuola!”».
Questo il racconto di mia nonna, una sopravvissuta del terremoto di Avezzano. Aveva 7 anni.
Suo marito, mio nonno, un po’ più grandicello, era su un treno che lo portava al lavoro non so dove. E si salvò.
Alle 7.53 un terremoto di magnitudo stimata 7.0 della scala Richter, rase al suolo Avezzano, uccidendo più di 10.000 persone.
Nei paesi della Marsica non andò meglio, morirono più di 30.000 persone in totale.
Sin da bambina, ho sentito sempre parlare di terremoto, non solo perché intorno a me c’erano ancora i segni, ma anche perché sono nata grazie al terremoto: mio nonno paterno si trasferì dall’Umbria ad Avezzano al termine della Prima Guerra Mondiale, in cerca di lavoro.
I miei nonni non parlavano volentieri né di terremoto né di guerra, eppure erano presenti sui loro volti.
Quando a 18 anni mi trasferii a L’Aquila, ero convinta di essermi lasciata il terremoto alle spalle.
In molti dicevano che la causa era stata il prosciugamento del Lago del Fucino a fine ‘800. E lo dimenticai.
Quando venne a ritrovarmi 6 anni fa a L’Aquila, infreddolita alle 3.32 del 6 aprile, pensai: ho avuto due terribili terremoti in soli 94 anni.
Oggi, 13 gennaio 2015 è l’anniversario del mio primo terremoto: 100 anni, un secolo.
E quando guardo le poche foto di Avezzano prima del sisma, penso che continuerò ad aspettare per vedere almeno una delle mie due città ricostruite.
E conto di riuscirci.