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Napoli, un posto solo
16 Feb 2015 09:38

Una vicenda interna ad una famiglia. Si faceva fatica a venirne fuori. Diana aveva 19 anni Paola 18. Due sorelle, tutte e due con voti alti al liceo. Nove, otto, nove, nove. Questo il tenore.

Ma papà Carlo aveva un solo stipendio, quello di impiegato dell’ufficio di collocamento. Sua moglie aiutava saltuariamente la sorella in un forno, per poche lire.

Era il 1978, l’università più vicina distava 80 chilometri. La Federico ll di Napoli. E non vi erano abbastanza soldi per far studiare ambedue le ragazze. Toccava un drammatico ballottaggio.

Una sola delle due avrebbe potuto accedere ad una vita professionale e dunque di qualità. Ma chi? Quale il criterio da seguire?

Le ragazze non volevano odiarsi. Facevano di tutto per tenere lontano pensieri astiosi l’una verso l’altra. Ma sapevano che entro giugno bisognava prendere una decisione.

Erano stati fatti tutti i calcoli. A stento si riusciva ad arrivare a quattrocentomila lire al mese, per finanziare una laurea di quattro anni. Una delle due doveva andare ad imparare un mestiere artigianale.  Anche se con la media del nove ad un liceo classico, un liceo, tra l’altro, molto parco nei voti.

Paola era la più intraprendente, Diana la più tenace. Paola decise di lasciare la possibilità alla sorella. Ma a patto di ricevere il consenso di andare a lavorare in città. I genitori lo negarono. Lei partì lo stesso. Andò a Napoli con cinquecentomila lire in tasca, frutto di risparmi e di un regalo della nonna.

Andò nella città partenopea prima dell’arrivo della sorella. Trovò alloggio da un’amica compaesana, poi s’impiegò in un bar.

Dopo una settimana ebbe un compenso e con quei soldi pagò un quota della pigione mensile. La settimana successiva idem. La proprietaria dell’appartamento capì la sua situazione e gli diede agio di aspettare.

Il gestore del bar la “prese” in nero. Così ella poteva mantenersi a Napoli ed era già tanto.

Voleva iscriversi all’università, Paola, ma la cifra necessaria era lontana. La sicurezza di poterla sostenere, lo stesso. Per quattro mesi cumulò qualche soldo. Poi un giorno nel bar arrivò per lei una rosa. Una rosa anonima.

Dopo una settimana un uomo barbuto, sulla sessantina, mentre beveva un caffè le disse. “Piaciuta la rosa?”

Lei capì. Era un cliente odioso, ma sempre ben vestito. La invitò a cena. Lei accettò. Ormai il suo progetto stava per fallire e non pensava molto alle sue azioni.

L’uomo la portò in un ristorante sicuramente costoso e durante la serata disse poche parole. Fece solo qualche domanda. Poi si salutarono ed ognuno tornò a casa. Paola non ci pensò più di tanto.

Il venerdì successivo l’uomo barbuto la reinvitò. Lei disse si. Altro ristorante di lusso, altra cena, sempre poche parole. Lui scrutava come uomo avvezzo a capire gli animi, lei si chiedeva cosa ci faceva in quel luogo.

Andarono a cena per altre quattro volte.

“Ti servono soldi?….Vuoi uscire da quel bar e fare altro?”

“E cosa posso fare?”

“Te lo trovo io un posto di lavoro buono, ho amici giusti.”

Tornò a casa e iniziò a riflettere, Paola. “Quell’uomo chi era? Che voleva? Che posto proponeva?” Aspettò la cena successiva e fece qualche domanda.

“Lascia stare. Sei pronta per un colloqui di lavoro? Anzi…ti devi solo presentare in un posto e fare una richiesta scritta, poi ci penso io”.

“Ma tu in cambio che vuoi?”

“Niente di ciò che si può pensare…. ora concentrati sul colloquio…. domani presentati al Comune, ufficio dell’economato. C’è un posto di telefonista, contratto ad un anno, rinnovabile.”

“Al Comune?”

Si presentò, fece domanda, la trattarono bene.

“Hai grosse possibilità che scelgano te.” disse lui in serata seduti al ristorante.

“Davvero?…. Ma cosa vuoi in cambio?”

“Tu sei una brava ragazza di paese. Sai sicuramente cucinare, lavare, stirare… Mia moglie è morta due anni fa. Io sono rimasto solo….”.

“Vuoi una donna a servizio….credo di aver capito”.

“Esattamente. Io ti affido la mia casa.”

“E mi paga lo Stato”.

“Esattamente”.

“E se non lavoro più da te il contratto non mi si rinnova.”

“Esattamente”.

Paola accettò. Venne assunta. Prendeva uno stipendio come quello del padre. Dopo le 14.00 andava a casa dell’uomo, alle 20.00 era libera. S’iscrisse all’università.

Erano mesi che si materializzava alla famiglia solo con una breve telefonata mensile. Si era resa irrintracciabile. Diceva due parole: sto bene.

Ma con il soldo in tasca e l’iscrizione decise di andare a trovare la sorella.

Diana felicissima le diede appuntamento nella facoltà di lettere. La sua facoltà.

Appena si videro si abbracciarono. Lei gli parlo dei due esami che aveva superato e di un terzo che doveva tenere nel pomeriggio. E mentre erano al bar a bere un caffè, Diana esclamò d’un tratto “Ecco!…Ecco il professore dell’esame!…E un tipo tosto…sarà dura!”

Paola si girò e vide il suo datore di lavoro. Le prese un colpo.

Diana lo salutò: “Professore buongiorno! Le presento mia sorella.”

L’uomo colse l’imbarazzo di Paola. “Piacere signorina”.

“Piacere”.

“Ma potevi fargli un sorriso”.

“…..è antipatico!”

“Si…è scorbutico, ma è il più serio di tutta la facoltà. Ed è sempre pronto ad aiutare tutti. Un vero servitore dello stato!”

Paola farfugliò: “Servitore, servo, serva.”

“Ma che dici? Non ho capito!”

“Niente. Un gioco di parole.”


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