Il dibattito parlamentare si è infiammato anche sulla discussione della riforma del codice antimafia. La possibilità di estendere alle ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, peculato e affini), sebbene accompagnati dalla contestazione di associazione a delinquere semplice, i sequestri preventivi alle imprese degli indagati ha sollevato qualche obiezione.
Una scelta politico-giudiziaria che parte da lontano e, nello Stato italiano nato nel marzo del 1861, compie quest’estate ben 154 anni. Tutto cominciò infatti con la famigerata legge Pica (dal nome del deputato abruzzese che ne fu proponente e relatore), per reprimere la rivolta sociale del brigantaggio, che aveva trasformato l’intero Mezzogiorno in un Far West dove i militari facevano fatica ad agire. Nove norme, approvate nell’agosto del 1863, poi prorogate due volte con integrazioni fino ad arrivare al 1865. Di fatto, nelle sei regioni meridionali si decise di non tener conto delle garanzie costituzionali previste dallo Statuto albertino.
Il risultato furono migliaia e migliaia di morti, intere popolazioni nelle mani dell’arbitrio dei militari che, con i loro tribunali, in maniera spiccia e senza garanzie difensive, decidevano fucilazioni e esecuzioni immediate. Niente giudice naturale, niente dialettica difensiva, niente informazione sulle condanne. Molti morirono senza che ne fosse dato conto in rapporti ufficiali e, non a caso, quella pagina unitaria oscura, ancora sfugge a precise indicazioni sulle vittime. Tanto che il maestro Andrea Camilleri, nel suo bel libro “La bolla di componenda”, sulle cifre ufficiali approssimate per difetto dei morti nella repressione del brigantaggio commentò 24 anni fa: “Un po’ troppi per trattarsi di puri e semplici banditi da strada”.
Non aveva torto. Per interessi politici, si spacciò 154 anni fa una grande rivolta sociale come questione criminale da reprimere, senza intervenire sulle cause che ne erano state all’origine. Legge speciale, che, come sempre accade, aveva norme che affrontavano fenomeni di diversa natura e origine: per la prima volta comparve il termine “camorrista” in una legge italiana. Per un semplice sospetto, una commissione provinciale poteva allontanare in terre lontane chi veniva indicato come camorrista. Norma che non c’entrava nulla con il brigantaggio, che era rivolta sociale, guerra civile, repressa con tribunali militari, fucilazioni e tecniche da guerriglia.
Fenomeni diversi e lo spiegò anche il capobrigante lucano Carmine Crocco quando, nel carcere di Portoferraio, venne intervistato dallo psichiatra Salvatore Ottolenghi che ne fece oggetto dei suoi studi antropologici. Che pensate della mafia e della camorra? “La camorra è la cosa più cattiva del mondo, ne fanno parte mascalzoni e miserabili” rispose. Fenomeni diversi, accomunati però in una stessa legge speciale repressiva.
Come si vede, il vizio italiano del “doppio binario” parte da lontano. Ma c’è da chiedersi se la repressione giudiziaria, in circostanze eccezionali, possa utilizzare solo norme ordinarie, senza ricorrere a leggi speciali come per la mafia. In tal caso, bisognerebbe ammettere che il sistema che guarda alle garanzie della Costituzione è imperfetto e, in corso d’opera, ha bisogno di continui correttivi. Sarebbe un’amara constatazione, come amara e violenta fu la sanguinosa e arbitraria repressione che violentò il Sud 154 anni fa.