Una cosa è certa: secondo il piano preparato da anni dall’ex compagno Carlo Cosco, Lea Garofalo doveva essere cancellata ”dalla faccia della terra non solo uccidendola ma anche disperdendone ogni traccia materiale”, perché lui non aveva mai ”accettato” le sue ”scelte” di ”libertà” sia ”rispetto alle regole di vita familiare, sia rispetto a quelle imperanti in ambito criminale”. Per il resto, però, rimangono ancora ”sconosciute” le ”modalità di esecuzione dell’omicidio” e anche quelle ”di distruzione del cadavere”.
È così che, dopo un processo di secondo grado ricco di colpi di scena, tra dichiarazioni degli imputati e confessioni, i giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano ricostruiscono le responsabilità dell’ex compagno della donna e di altre quattro persone in quel terribile caso di ‘lupara bianca’ avvenuto a Milano nel novembre del 2009. Allo stesso tempo, i giudici evidenziano anche la possibilità che gli imputati si siano messi d’accordo per ”salvare il salvabile”, dopo la sentenza di primo grado che aveva inflitto sei ergastoli.
La scorsa estate uno degli imputati, Carmine Venturino, si era pentito e aveva racconto al pm Marcello Tatangelo che la donna – diventata testimone di giustizia in Calabria – era stata strangolata con un ”cordino” da Carlo Cosco e il suo corpo era stato bruciato. I giudici, tuttavia, non lo hanno ritenuto completamente attendibile.
La Corte (presidente Anna Conforti, a latere Fabio Tucci), infatti non crede alla versione del ”cordino” e per i giudici non si può nemmeno escludere che ”prima di essere bruciato e sbriciolato il corpo sia stato immerso in sostanze corrosive”.
Torna dunque plausibile anche l’ipotesi che Lea – la figlia Denise si è costituita parte civile contro il padre – sia stata sciolta nell’acido. Così si era detto nella sentenza di primo grado del marzo 2012, prima che arrivassero le dichiarazioni a verbale del pentito (ergastolo in primo grado, 25 anni con le attenuanti in appello).
Pentito che, da un lato, spiegano i giudici, ha fatto ritrovare i pochi resti di Lea in un tombino di un magazzino a Monza e, dall’altro, con le sue confessioni potrebbe aver partecipato a quegli ”accordi interni” tra gli imputati in un’ottica ”arguta” di ”riduzione del danno”.
Dopo le dichiarazioni di Venturino, tra l’altro, in aula era arrivata la confessione di Carlo Cosco, il quale aveva ammesso dopo oltre tre anni di aver ammazzato Lea, ma per un ”raptus”. Tesi che secondo la Corte offende ”l’intelligenza di chi lo ha ascoltato”, perché Cosco, affiliato alla ‘ndrangheta – chiariscono i giudici – coltivava un ”odio profondo” nei confronti della sua ex compagna alimentato dal ”rancore per l’abbandono” subito con ”la scelta collaborativa di Lea” che non può ”che avere svolto una funzione moltiplicatrice”.
Ma anche sulla posizione di Carlo Cosco la Corte non crede a Venturino che lo indicava come autore materiale dell’omicidio: ”non ha partecipato all’esecuzione”, ma ne è stato il mandante. I giudici infatti danno pieno credito alle dichiarazioni di un altro pentito, Salvatore Sorrentino. Alla fine se il pm aveva chiesto la conferma di tre ergastoli e due assoluzioni, la Corte ha inflitto quattro ergastoli ed ha assolto solo Giuseppe Cosco, fratello di Carlo, con la formula che ricalca la vecchia insufficienza di prove.
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