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Le opposizioni abbaiano alla luna. E vi spiego perché
24 Feb 2015 07:48

“Un accordo tra le opposizioni limitato alle nuove norme costituzionali può ancora correggere un progetto di legge sbagliato in radice e costringere Renzi ad ascoltare la voce della ragione.

Senza una svolta il premier continuerà ad accumulare potere e le opposizioni continueranno ad abbaiare alla luna, sbraitando e spintonando nell’emiciclo del Parlamento.”

Le cronache raccontano che il capo del governo, nottetempo, si sia improvvisamente materializzato alla Camera dei deputati nel corso della seduta decisiva dell’assemblea chiamata ad approvare o respingere la riforma del Senato.

Con buona pace di quanti sostengono che agli italiani non importa niente delle riforme costituzionali (mentre, chissà perché, sarebbero appassionati dei decimali delle leggi di bilancio o delle tasse sui videogiochi), sono convinto, come Renzi, che questa riforma è la più importante tra quelle finora presentate dal governo in carica e la più gravida di conseguenze. Intendo le conseguenze non solo per la sorte della legislatura, ma per il futuro della democrazia italiana.

Si può dunque capire l’attenzione specialissima riservata dal premier al varo della riforma. E anche capire, ma non giustificare, lo stile da ‘commando’ militare di quella incursione notturna per spronare la propria parte e intimidire gli oppositori interni ed esterni. Leggo, sempre dalle cronache, che il premier avrebbe minacciato i riottosi: ”O votate la mia riforma o si va al voto anticipato”… “il governo va avanti non accetto ricatti”.

Chi è che ricatta? Sciogliere le Camere non fa parte dei poteri del premier – soprattutto di un premier nato da una manovra di palazzo – e i parlamentari hanno non solo il diritto ma il dovere di essere indipendenti e di agire secondo coscienza. Già non si era mai visto che fosse il governo e non il Parlamento a dettare e spronare la riforma di ben 40 articoli della Costituzione – un terzo della legge fondamentale!- relativi ad aspetti cruciali quali la rappresentanza dei cittadini e il potere di tutti i parlamentari di dare o negare la fiducia ai governi.

Neppure, si era mai visto un primo ministro che, anziché starsene al suo posto al banco del governo ad ascoltare, scorrazzasse tra i banchi del Parlamento, di cui non fa parte, minacciando le opposizioni per galvanizzare i suoi seguaci. D’altra parte nemmeno ricordo risse paragonabili, non per gli attacchi collerici di partiti avversi, ma per la miseria degli argomenti. Le opposizioni, non tutte, non hanno fatto una bella figura preferendo il confronto muscolare e le urla al confronto politico.

Per reggere un confronto in assemblea, per denunciare lo strangolamento dei tempi di discussione e frenare “derive autoritarie” ci vuole ben altro. Ci vogliono argomenti politici molto seri. Invece, si ricorre ai muscoli quando il cerebro è debole o quando si preferisce la confusione, il “casino”, alla spiegazione delle proprie ragioni e alla critica delle ragioni del governo.

Ovviamente ci si può anche acconciare e rassegnare a una battaglia di emendamenti, sperando di correggere questa o quella parte della riforma, esponendosi al sospetto di cercare la tutela di un interesse particolare, ma sarebbe come ingaggiare una battaglietta dopo aver perso la guerra. Prendiamo l’esempio dei capilista bloccati che garantirebbero ai segretari di partito un nuovo parlamento composto per la grande maggioranza da deputati nominati da loro anziché eletti dai cittadini.

Questo è certamente un punto importante ma, bisogna essere onesti fino in fondo. Anche se venissero introdotte le preferenze per tutti i candidati – capilista compresi – come chiedevano alcune delle opposizioni, resterebbe pur sempre un sistema elettorale che non prevede il rapporto, il legame fiduciario, del deputato con il suo territorio che solo il collegio uninominale assicura. Invece si scatenerebbe la competizione più aspra tra candidati dello stesso partito, una lotta fratricida che oscurerebbe la competizione tra i candidati di partiti avversari. Oggi, molto più che all’epoca dei partiti ideologici, ciascun candidato sarebbe indotto a pensare: “Battere gli avversari non è compito mio, a me tocca di battere il collega, l’amico, il compagno di partito giacché, con il sistema delle preferenze, sono loro i miei veri contendenti.”

Questo per la legge elettorale che tuttavia è in dirittura d’arrivo salvo per il particolare che essa è agganciata alla riforma costituzionale del Senato che non sarà più elettivo ma costituito da delegati nominati dai Consigli regionali.

Se le opposizioni lasciano passare anche la riforma del Senato non ce ne sarà più per nessuno, Renzi dominerà incontrastato, scegliendo dal menù delle opposizioni quella, volta per volta, meno refrattaria su quel singolo tema, quella più pronta e prona a compromessi, paga di fingere di esistere, di mostrarsi “responsabile” perché digerisce tutto. Soprattutto in ambiti come la politica estera e quella economica sarà molto facile per Renzi allungare ed esasperare le distanze tra le opposizioni naturalmente e radicalmente diverse come lo sono il Movimento 5 Stelle e Forza Italia, la Lega e SEL.

Eppure, per quanto divise su tutto, gli oppositori sono stati concordi nel protestare contro lo strozzamento del dibattito parlamentare e sono usciti dall’aula in gran numero, insieme. Ora, anche la partita del Senato è molto mal messa soprattutto da quando Renzi, approfittando dello sbandamento e dell’inconcludenza degli altri gruppi e movimenti e partiti ha cominciato a rastrellare singoli parlamentari assicurandosi il loro voto con vaghe promesse, magari un seggio nel futuro caravanserraglio del suo partito della nazione.

La Costituzione impone una nuova lettura sia alla Camera sia al Senato del progetto di riforma del Senato, dunque, in teoria, esiste lo spazio e l’opportunità per cambiarne l’impianto e la sostanza. Per provarci ci vorrebbero il coraggio e la volontà di riprendere la battaglia dall’inizio e magari l’immaginazione di pensare una soluzione chiara, visibilmente, platealmente, inconfutabilmente migliore di quella proposta dal governo. Di quest’ultima vanno smascherate l’inconsistenza, la faciloneria, l’improvvisazione che promettono di replicare per il nuovo Senato il disastro compiuto con le nuove provincie. Per dimostrare che quello di Renzi non è riformismo ma “cambismo” e che lui stesso non è un riformatore ma un trasformista, le opposizioni, tutte le opposizioni – a cominciare o a finire con l’opposizione interna al Partito Democratico – hanno solo una possibilità: indicare una strada diversa, una riforma vera, un cambiamento vero.

Quale?

Vediamo: superare il bicameralismo è la premessa della riforma renziana. Se la premessa è condivisibile, i modi e l’approdo scelti sono pessimi. Quel che non funziona del sistema attuale non è l’esistenza di due Camere, ma che tutte e due facciano lo stesso lavoro rimpallandosi le stesse leggi in un estenuante ping-pong.

E’ questo quel che non va come, del resto, da decenni ripetono unanimi tutti i costituzionalisti e buona parte delle forze politiche.

Allora, perché, per esempio, non riservare alla Camera dei deputati tutta la legislazione ordinaria – economica, sociale, civile, e il voto di fiducia al Governo – assegnando invece al solo Senato la competenza sulla politica estera, le commissioni d’inchiesta e il controllo sulle amministrazioni? Dio sa quanto abbiamo bisogno di attenzione, di conoscenze, di discussioni e deliberazioni conseguenti su tutti gli affari e i dossiers internazionali, quanto l’Italia abbia bisogno di internazionalizzarsi, sprovincializzandosi per prepararsi adeguatamente, quotidianamente, all’agenda del mondo, ai conflitti conclamati e a quelli latenti, alle sfide della globalizzazione, alle costanti e ai cambiamenti geopolitici. Se mai c’è stato un momento in cui la politica internazionale è diventata – tra Ucraina e Russia, Libia e Medio Oriente – l’emergenza di tutte le emergenze quel momento è venuto.

Una netta, inequivoca separazione e specializzazione di funzioni tra Camera e Senato sarebbe di gran lunga più utile ed efficiente del papocchio combinato da Renzi. Un papocchio che non eliminerà affatto il bicameralismo paritario, l’intreccio e la confusione di competenze, le liti e il contenzioso tra Camera e Senato delle Regioni.

Anche le opposizioni hanno contribuito ad aggravare questo scenario nell’illusione di risollevare, con un’iniezione di confuse competenze paritarie, la dignità di un organo – il nuovo Senato – privato di ogni legittimità democratica e rappresentativa, sfigurato sino ad apparire una specie di sindacato o corporazione delle regioni installata a Roma. Un’ultima considerazione: il premier ha molto agitato il tema della riduzione dei costi che si otterrebbe trasformando il Senato da Camera elettiva ad assemblea di delegati dei consigli regionali.

Polvere negli occhi: si risparmierebbe molto di più dimezzando o, comunque, riducendo significativamente il numero sia dei senatori sia dei deputati. In conclusione, anche prendendo per buoni ed attuali i risultati più favorevoli a Renzi – quelli delle elezioni europee del 2014 – le opposizioni rappresentano pur sempre il 60%, dei votanti, cioè una volta e mezza quel 40% che ha votato il Partito Democratico. Certo, grazie all’abnorme e incostituzionale premio di maggioranza del “porcellum” e a centottanta parlamentari voltagabbana, Renzi sembra poter contare su un margine ampio di sicurezza.

Tuttavia, un accordo – limitato alle nuove norme costituzionali – tra opposizioni per il resto incompatibili, può infrangere tanta sicurezza, costringere il premier ad ascoltare la voce della ragione, imprimere una svolta democratica seria a un papocchio indecente.

In assenza di questa svolta Renzi può dormire sonni tranquilli e le opposizioni possono continuare ad abbaiare alla luna, o, anche, a sbraitare e spintonare nell’emiciclo del Parlamento.


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