Il potere, si sa, è arrogante. Chiunque arrivi ad occupare una qualsiasi postazione di gestione, di supremazia su altri, di facoltà di disporre e decidere, di colpo si trasforma. Le persone più disponibili e semplici diventano altezzose, scostanti. L’orgia del potere era il famoso titolo del film di Costa-Gavras.
Sul tema c’è un singolare aneddoto, una vicenda storica curiosa, testimoniata da uno scheletro visibile per anni al Museo di Scienze naturali di Napoli. Riguarda il regno di Carlo III di Borbone, di cui si è celebrato lo scorso anno il centenario della nascita. Nel 1738 al re, da quattro anni sul trono di Napoli e Sicilia, il sultano turco Maometto V regalò un elefante indiano. Era un esemplare bellissimo e forte. Non molti, prima di allora, avevano visto quel genere di animale.
L’elefante, descritto in un saggio scientifico breve da anche dal letterato dell’epoca Francesco Serao, fece così tanta impressione che fu portato in visione ad un pubblico allargato e stupito perfino al teatro San Carlo, esibito nell’opera di Pietro Metastasio “Alessandro nelle Indie”. Se ne prendeva cura e ne faceva guardia un caporale dei veterani dell’esercito Borbone.
Accadde però il non desiderato. L’elefante morì nel 1756 per un’alimentazione sbagliata e il caporale vide svanito di colpo tutto il suo potere, tutta la sua importanza. Divenne un sottufficiale come gli altri. La carcassa dell’animale fu esposta prima al Museo nazionale e poi a quello naturalistico di Napoli. Ma la depressione in cui cadde il caporale si trasformò in uno degli innumerevoli detti che riempiono la lingua napoletana. “Caporà, l’elefante è mmuorto!” si dice di qualcuno che ha perso il suo potere per circostanze nuove e improvvise, che deve smettere di sentirsi importante. Come a dire, è finita la festa. Tanti dovrebbero capire, quando siedono su sedie importanti, che all’improvviso potrebbero perdere tutto. Gli elefanti non sono eterni. Muoiono anche loro.