“Qui siedo in attesa – in attesa? Ma di nulla, / al di là del bene e del male, e non più bramoso / della luce che dell’ oscurità, del meriggio amico e amico dell’ eternità”
Friedrich Wilhelm Nietzsche
L’Aquila è una città sospesa. Per certi aspetti somiglia a Venezia.
Venezia aspetta sospesa sull’acqua e L’Aquila (città dell’acqua) aspetta sospesa sulla terra.
La domanda è: che cosa aspettano?
La bellezza sembra come essere imprigionata dall’attesa e la decadenza diventa parte di essa. Bellezza e decadenza si specchiano in un loop infinito e tra questi due specchi la sospensione, appunto, l’attesa.
Sospese le gru nel centro storico, sospese le impalcature, sospesi i tetti delle case logorati dal quinto inverno dopo il terremoto del 2009, sospese le mantovane di protezione, sospesi gli operai a lavoro sugli antichi palazzi nobiliari distrutti, sospese le vite delle persone che lavoravano e vivevano in centro storico e sospese le vite di chi, qui, ancora cerca di lavorare tra un ricollocamento ed un’altro dell’attività.
Sospese le parole, sospesi i ricordi, sospese le emozioni.
Qualche turista, qualche ricercatore passeggia curioso nella parte scenografica, tra le quinte teatrali della città dove il solito, esiguo plotone di pensionati, brandendo gli ombrelli, fa la ronda lungo il corso principale. Una soldatessa sorride ad un cane che passa in un varco tra le transenne.
Rumori meccanici di gru in movimento, parole ovattate di operai dai diversi dialetti e ovattato anche il silenzio nelle zone più interne del centro storico dove l’odore del terremoto è più forte.
Un odore acre. Un misto di polvere, muffa e assenza.
Il freddo che proviene dalle porte aperte delle case abbandonate, qualche vestito o biancheria lasciato da anni ad asciugare.
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