Se si guarda L’Aquila, illuminata dal sole, un po’ dall’alto e da lontano, sembra una città come tutte le altre e sembra che non sia successo nulla, che tutto sia in ordine e che la vita scorra lenta e regolare. Quando si scende dal colle, però, e si entra nel centro storico, passando per la periferia, ci si ritrova immersi in una grande scenografia teatrale di uno spettacolo finito, un immenso set cinematografico di un vecchio film che si è girato tanto tempo fa e quello che ne rimane sono delle facciate di contenitori vuoti e il silenzio.
Si potrebbe parlare di un’estetica anestetica della distruzione. Questa definizione lungi dall’essere un ragionamento pseudo-intellettuale o un improvvisato calambour, ma è il tentativo di descrizione della quotidianità dell’Aquila a più di quattro anni dal terremoto del 6 aprile 2009, da parte di chi, da quasi tre anni a questa parte, vive immerso in un contesto di distruzione e provvisorietà e cerca con il suo lavoro di elaborare un’esperienza collettiva intensa e nuova.
L’esposizione giornaliera alle macerie e alla distruzione sta mutando lentamente il rapporto con le cose, con gli oggetti, con le case, con quei simboli che un tempo avevano significati diversi da quelli di “rovina”, “abbandono”, “desolazione”, “pericolo”, “morte”.
Gradualmente e inesorabilmente gli occhi hanno iniziato a vedere come normali i cumuli di macerie, ad esempio quelli delle demolizioni delle case popolari del quartiere di Pettino, che da quasi un anno giacciono abbandonate in una periferia ormai fantasma.
Se i primi anni dopo il terremoto le luci di Natale, nel corso principale della città, erano motivo di gioia, perché il centro tornava lentamente alla vita, ora provocano ai più un certo imbarazzo e danno la sensazione che servano a distrarre i passanti dai puntellamenti, dai buchi sui muri o dai sanitari a vista.
La fotografa veneziana Alessandra Chemollo, ideatrice di “SismyCity” un progetto fotografico sulle conseguenze del sisma che ha colpito l’Aquila e il suo territorio, ha sottolineato che “due anni fa la città sembrava un corpo gravemente ferito, mentre adesso da l’idea di un cadavere ripulito e pronto per essere tumulato”.
Dopo una catastrofe naturale, come dopo una guerra, lo scenario, nel quale si muove la vita di una comunità cambia e cambia la vita stessa circondata dalla distruzione e, aspettando la ricostruzione, dal provvisorio.
Quanto e come incide tutto questo nell’elaborazione quotidiana e professionale, ad esempio di un pittore, di uno psicologo, di un ingegnere o di un fotografo?
Per Sandro Sirolli, psicologo e presidente dell’Associazione “180 Amici” “Lo stato d’animo è speculare a ciò che si ha intorno e la distruzione non fa altro che ricordare l’evento. Lo stato d’animo è rovinato come è rovinata la città ed è difficile da ricostruire come si sente difficile la ricostruzione della città.
Questo porta i cittadini ad evitare di entrare nelle zone, anche quelle percorribili, del centro storico, per un meccanismo inevitabile di difesa”.
Per questo motivo che il pittore aquilano Marcello Mariani non entra più nel cuore della sua città “Non entro più nel centro storico, non ci riesco. Non trovo nessuna ispirazione nella distruzione. L’Aquila per me era una madre, una fidanzata, un’amante che mi nutriva con le sue forme e le sue luci, ora il mio amore non c’è più e voglio ricordarlo bello com’era, come quando di notte passeggiavo solo per i vicoli del centro storico o mi fermavo le ore sulle scale di una chiesa a rifletterne la bellezza sotto la luce della luna che muovendosi ne cambiava le forme. Passo le mie giornate a casa o nel mio studio provvisorio di Bussi lontano quaranta chilometri. Se esco non so dove andare per incontrare le persone, i miei amici”.
Quello che manca all’Aquila è la possibilità di incontrare le persone in modo casuale, come succede in ogni piccolo centro storico.
“La bellezza di un centro storico la fanno le persone e non una bellezza soggettiva a livello architettonico – dice l’ingegnere e professore di disegno alla facoltà di Ingegneria dell’Aquila, Romolo Continenza – Grandi architetti hanno progettato bellissime città che sono, però, fredde e sterili perché non sono vissute. Il valore aggiunto di una città è il valore della vita, se si perde quello si perde l’essenza della città che ha senso se ci sono colori, profumi e anche cattivi odori. Se da un caffé non esce l’odore del caffé, se da una panetteria non esce l’odore del pane non è una città.
Non è un caso che siano andati via i piccioni dal centro e siano rimaste solo le cornacchie, gli animali certe cose le sentono”.
Anche per il fotografo Marco D’Antonio le persone sono alla base della sua ricerca ed elaborazione “La mia interpretazione della fotografia è basata sull’umanità e non sentendomi io stesso più in grado di vivere una quotidianità non riesco a trovarla nemmeno nelle persone che fotografo.
Racconto la vita delle persone e questa vita non la sento più, o meglio, è diversa da prima ed è ancora troppo difficile da capire perché è come esplosa e dispersa fuori dal centro storico. Anche quando ho fotografato gli oggetti abbandonati dalla gente dopo il terremoto volevo raccontare le storie personali e se vogliamo la mia storia, ma adesso anche questo non ha più senso. Ho la necessità di raccontare nuove storie, anche fuori da qui. Ho paura di abituarmi ad uno scenario distrutto e provvisorio, una specie di Lego gigante del quale si è fatto un abuso d’immagini eccessivo. Subito dopo il terremoto c’era l’aspetto di cronaca e di documentazione che spingeva a raccontare e documentare il contesto, ora anche quello si sta perdendo, forse anche per stanchezza”.
“Ciò che di buono può nascere da tutto questo – continua lo psicologo Sirolli – è la capacità di scoprire il desiderio di ricostruire la città e la comunità in maniera collettiva oltre che individuale, in una parola partecipare. Purtroppo, però, questo processo di partecipazione non è assolutamente facilitato, ma è inibito e chi desidera voler essere protagonista inevitabilmente vive una frustrazione e di conseguenza delusione, demotivazione e isolamento e a quel punto le fughe e gli allontanamenti per altre città sono una difesa indispensabile. Dare un senso alla vita in questa città si può solo con la partecipazione”.
L’ingegnere Continenza rimarca il concetto della partecipazione: “Non serve il grande assolo di un architetto per la ricostruzione di una città, non serve l’opera d’arte. Se l’opera d’arte ci piace è proprio perché è inserita in un contesto corale di persone che pietra dopo pietra innalzano delle costruzioni e poi ognuno da la forma alla sua porta appena differente da quella del vicino per marcare lievemente una differenza. In questo momento però siamo immersi nel provvisorio e in un’atmosfera di sospensione. Un’estetica meccanicistica è quella che si percepisce all’Aquila, un’ estetica che sembra aver affidato tutto alla tecnologia, una tecnologia di sopravvivenza.
Un’intera città sembra quasi essere stata messa in un grande polmone d’acciaio.
Ci sono aspetti tendenti alla contemplazione di un relitto che ha perso la dimensione del tempo. Qui il tempo è sospeso. Il ponteggio di fronte all’edificio della scuola elementare De Amicis, che sta lì da quasi tre anni ormai, potrebbe essere assunto a paradigma di tutto il sistema: la tecnica che addirittura non ha bisogno della mano e quindi la traccia dell’uomo scompare”.
“Dalla distruzione della città l’unica cosa positiva che ho preso è stata una forza impressionante che spero non si esaurisca – continua il pittore Marcello Mariani – La precarietà, invece, mi ha dato la capacità di impegnarmi in un lavoro intenso di testa e di anima perché ho capito che la vita deve continuare anche in una città che cade a pezzi. Da qui nasce una mia nuova ricerca artistica carica di contenuti che nemmeno io sapevo di avere dentro: la ricerca di figure angeliche astratte, bianche. Nel dolore ho trovato speranza per non cedere alla disperazione”.
Lascia un commento