Ecco. Morti senza necrologi nei giornali (costano troppo?). Morti che vanno e vengono nelle viscere del mare. In superficie il Titanic del mondo cosiddetto civile. Alla radio, ecco nelle rubriche l’eco vocale dei primi commenti sui fatti, sui lutti, con parole che perdono spessore: i morti sono anonimi come il cordoglio dei parenti rimasti a casa nell’Africa nera che è blu dal dolore. Acqua salata e fiamme miste, d’accordo per rosicchiare pelle e ossa.
Alba tragica, dopo la notte della strage. Piange il giornalista nella rubrica stampa, piange sulle pagine dei giornali con i titoloni, l’ indignazione, l’onda della paura di non trovare all’impronta una reazione capace di spiegare ciò che sarebbe spiegabile. Era spiegabile, da commentare, da analizzare, da indicare a chi ha il potere e i poteri di trovare soluzioni per l’arrembaggio dei miserabili.
Miserabili nero fumo o nero pallido in cerca di fortuna, e un poco di pane, qui da noi, e nel mondo che distratto si divide tra tv e waterclosed per il benessere, nonostante le diete. Piange il giornalista, persona giusta che cerca la vibrazione sua stessa negli articoli dei colleghi che hanno pianto allo spettacolo del Titanic dei cadaveri ambulanti tra pesci e becchini.
Continuano a piangere in fretta, fretta fretta, poichè c’è da andare a ridere della politica delle sfiducie nutrite di falsa fiducia.Mi guardo i piedi. Credevo di avere le scarpe e i calzini. Li ho. Ma sento brividi. Ecco, sono in una pozzanghera di lacrime.
È tiepida: acqua fredda, fuochi non fatui. Una miscela forte che sale al cuore. Alzo la testa, guardo il computer, il suo schermo. Mi specchio. Intanto il film che immagina sulle immagini, sul copione muro del pianto, va avanti. I corpi sono a faccia in giù. Sono orizzontali. Il mio volto è verticale, duro, senza lacrime. Ma pesto la pozzanghera, sguazzo nelle notizie e nel cordoglio impacchettato. Non si può fare altro?